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L’attuale crisi delle materie prime mostra il fallimento della globalizzazione liberista

I venti di guerra che soffiano da est rendono sempre più concreto il rischio di una crisi alimentare e delle materie prime in Europa a seguito della chiusura dei porti ucraini e al blocco delle esportazioni. Mentre il panico e giochi speculativi degli investitori hanno portato all’impennata fuori controllo [1] dei prezzi. Il punto è sostanziale per quei paesi come l’Italia (e tutta Europa in generale) che negli ultimi decenni hanno riposto nel cassetto ogni progetto di autosufficienza alimentare e industriale, il problema – ha detto [2] ad esempio il presidente ci Cia-Agricoltori Dino Scavino – non è solo quello dei prezzi ma una potenziale «difficoltà di approvvigionamento per il nostro Paese di materie prime come il grano, il mais e il girasole con conseguenze drammatiche per le rispettive filiere».

Dalla Russia, infatti, l’Unione Europea non importa solo un quantitativo considerevole di gas naturale, pari al 40% del totale, ma anche una parte cospicua di materie prime fondamentali sia per il comparto agroalimentare che per quello tecnologico-industriale. Basti considerare che secondo le stime del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA), la Russia è il primo esportatore di grano al mondo, mentre l’Ucraina è il quarto: insieme i due Paesi sono responsabili del 30% del commercio globale di grano, del 25% delle esportazioni di mais e dell’80% di quelle di olio di girasole. Ma a preoccupare è anche la questione dei fertilizzanti, indispensabili sia per la qualità che per la quantità dei raccolti agricoli: come risposta alle sanzioni imposte dalla UE, infatti, il Ministero del commercio e dell’industria russo ha raccomandato ai produttori di fertilizzanti del Paese di interrompere le esportazioni, come segnalato anche dalla Coldiretti. L’amministratore delegato di Consorzi Agrari d’Italia, Gianluca Lelli, ha sottolineato che «nel settore dei concimi, se si mettono insieme le produzioni di Russia e Bielorussia si arriva al 40% delle esportazioni mondiali di potassio e al 20% di quelle di ammoniaca». Ciò significa che sono a rischio le forniture strategiche per le economie occidentali non solo in campo agricolo, ma anche in quello industriale. La Russia, infatti, è un Paese ricchissimo di materie prime, minerali e metalli preziosi e possiede buone quantità di terre rare indispensabili per il settore industriale e per la produzione dei microchip.

La guerra commerciale intrapresa dalla UE contro il Cremlino, dunque, si sta già ritorcendo contro i Paesi sanzionatori, con il rapido aumento dei prezzi delle materie prime e del gas, mentre il Cremlino guarda sempre di più all’Asia per i suoi scambi commerciali, compensando così ampiamente la perdita dei mercati occidentali: ha infatti sottoscritto di recente un vantaggioso accordo con il Pakistan –  importante mercato emergente con ben 224 milioni di abitanti – per l’esportazione di circa due milioni di tonnellate di grano, mentre la Cina ha allentato le restrizioni doganali sulle importazioni di grano e mais russo, palesando così il suo sostegno a Mosca. Al contrario, ad aggravare ulteriormente il quadro commerciale dei Paesi europei è intervenuta la decisione del Presidente russo lo scorso 8 marzo di firmare un divieto di import-export [3] verso i Paesi ritenuti ostili, tra cui l’Italia, come risposta all’iniziativa degli Stati Uniti di interrompere gli acquisti di greggio. Per il nostro Paese, ciò significa impossibilità di approvvigionamento di intere categorie di beni con un effetto a catena sull’intera filiera industriale e agroalimentare.

È anche importante rilevare come la crisi ucraina – così come precedentemente quella da Covid-19 – abbia mostrato inequivocabilmente gli scompensi della globalizzazione, che ha comportato un’interdipendenza strategica tra le nazioni, con effetti negativi per quelle che – come l’Italia – hanno trasferito quasi tutta la loro produzione di beni e servizi essenziali all’estero: se, infatti, il sistema globalizzato aveva già rivelato i suoi squilibri in “tempi di pace”, ancora più evidente è la sua inadeguatezza in tempi di crisi, per cui interi Paesi paventano il rischio di rimanere con gli scaffali vuoti. Per questo, il consigliere delegato di Filiera Italia, Luigi Scordamaglia, in un’intervista [4]al Corriere della Sera ha affermato che «La globalizzazione che abbiamo idealizzato per anni è finita. Archiviamo da ora l’errata convinzione che l’Italia sia un giardino dove non si possa produrre più niente», aggiungendo poi che «le catene internazionali degli alimenti vanno completamente ridisegnate». Ci troviamo dunque di fronte al tramonto di un sistema – e di un’era – dipinto per anni come il miglior modello possibile di “progresso” e prosperità, con tutte le pesanti ripercussioni che questo comporta in termini economici e sociali per il Vecchio continente e in particolare per il Belpaese: quest’ultimo tra i più colpiti dal caro energetico e alimentare a causa dell’enorme dipendenza dall’estero. Per tale ragione, Scordamaglia – facendo eco al Presidente francese Macron [5] – ha auspicato il ritorno alla sovranità alimentare, da sempre considerata dalla UE sinonimo di autarchia e anacronismo storico e che, invece, appare ora come l’unica reale contromisura ad una crisi alimentare ed economica annunciata. 

[di Giorgia Audiello]