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Il dibattito sull’uso della schwa e la necessità di un linguaggio inclusivo

In queste settimane il dibattito circa l’utilizzo della schwa infiamma gruppi di studiosi e non solo. Coloro che lottano per il riconoscimento di un linguaggio più inclusivo, che elimini l’utilizzo del maschile sovraesteso e offra opportunità di riconoscimento anche per le persone non binarie, si scontrano con i “puristi” della lingua, che non comprendono la necessità di apportare delle modifiche. Il 4 febbraio un gruppo di intellettuali ha persino lanciato una petizione sulla piattaforma Change.org, dal nome Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra, che ad oggi ha raccolto più di 21 mila firme.

Prima di entrare nel merito del dibattito, è doveroso fare una premessa. La lingua è, per molti aspetti, un fenomeno sociale. La sua forma è lentamente plasmata nel tempo dai parlanti, che la adattano alle proprie necessità. È un fenomeno che evolve e trasmuta, nonostante le mura innalzate dai più pervicaci oppositori al cambiamento. Non è mai esistito un sistema linguistico chiuso e impermeabile, ma ciascuno si arricchisce continuamente di neologismi (di cui signori quali Dante o Leopardi furono prolifici inventori) e nuove forme di espressione.

Ad oggi viviamo in una società estremamente complessa e polimorfa: mezzi di comunicazione di massa e social media hanno in particolare contribuito ad eroderne la patina di pretesa omogeneità, mostrandone il volto poliedrico e offrendo a ciascuno un proprio spazio di rappresentazione e rivendicazione. La lingua, in quanto strumento tramite il quale un determinato gruppo sociale dà forma al mondo, necessariamente si adatta a questi processi: in questo senso, essa è anche un mezzo di riconoscimento e inclusione. A confermare il peso che la lingua ha nella rappresentazione della realtà basti pensare che il Dizionario della Lingua Spagnola nel 2021 ha definito [1] l’onore come “buona reputazione determinata dall’onestà e dal pudore delle donne“.

La definizione del termine “onore” nella versione online del dizionario di lingua spagnola (https://dle.rae.es/honor). Al punto 3 si nota come una delle possibili definizioni sia “buona reputazione garantita dall’onestà e dalla modestia delle donne”

Il dibattito sull’utilizzo della schwa (in italiano la scevà) si inserisce in questo contesto. La “e rovesciata” è un grafema comune a diverse lingue e, per intendersi, ha lo stesso suono [2]della “e” finale nella frase in dialetto napoletano “curre curre guagliò”. Viene utilizzata in determinati contesti e ambiti più o meno ufficiali (conversazioni sui social network come veri e propri bandi di concorso) per mostrare una certa sensibilità verso quei gruppi di persone che non si identificano in una sessualità binaria o per contestare l’utilizzo del maschile esteso nella grammatica italiana. Di fatto non vi è mai stata la richiesta di modifica della grammatica italiana o il lancio di campagne per l’introduzione della “ə” nelle comunicazioni scritte da parte di chi sceglie di farne uso. Prima di sperimentare l’utilizzo della schwa sono stati fatti diversi tentativi [3], con l’uso di asterischi (*) o chiocciole (@), ma la problematica riguardo questa modalità è l’impossibilità di trasportarla in una lingua parlata. Un’alternativa potrebbe essere costituita dalla lettera “u”, ma la scelta presenta problematiche quali la vicinanza fonetica alla “o” e l’impossibilità di declinazione al plurale. Per tale motivo viene proposta la schwa (ǝ) per il singolare e la schwa lunga (з) per il plurale.

La questione ha suscitato un dibattito alquanto acceso in certi ambiti accademici, mostrando come le posizioni dei linguisti in merito siano fortemente polarizzate. Da un lato vi è chi sostiene che la lingua sia terreno fertile per le sperimentazioni e che sia giusto lasciare che il linguaggio cambi seguendo il fluire dei cambiamenti sociali. Dall’altro, alcuni intellettuali si sono fortemente opposti alla possibilità di introdurre modifiche al linguaggio scritto e parlato, difendendo un’idea di lingua immutabile ed avulsa dal contesto sociale in cui viene utilizzata. A sostenere quest’ultima posizione vi è una petizione lanciata il 4 febbraio sulla piattaforma Change.org [4] da Massimo Arcangeli (Università di Cagliari), dal titolo Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra. “Lingua nostra”, dichiara il titolo, come a voler tracciare sin da subito un confine netto con gli “altri”, che da quella lingua non si sentono rappresentati. Sancendo, come scrive Maurizio Decastri [5] dell’Università di Tor Vergata al Corriere della Sera, chi appartiene o meno al gruppo che può “affermare cosa si può dire e, soprattutto, quello che non si può dire“.

L’indignazione degli accademici firmatari della petizione è derivata dalla diffusione di un documento ufficiale riguardante la procedura per il conseguimento dell’abilitazione alle funzioni di professore universitario. Nel testo alcune terminazioni plurali sono state sostituite dalla schwa. “Lo schwa e altri simboli (…) non sono motivati da reali richieste di cambiamento. Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività” si legge nel testo della petizione, firmata da personalità di spicco del panorama intellettuale italiano, quali Massimo Cacciari, Alessandro Barbero e Luca Serianni. Curioso come si riconosca una dimensione evolutiva della lingua, la cui legittimità è tuttavia prontamente negata se invocata in nome dell’inclusività.

Il documento riguardante la procedura di conseguimento dell’abilitazione alle funzioni di professore universitario che ha incendiato il dibattito accademico sull’uso della schwa

Il dibattito circa un uso più inclusivo della lingua non è certo nato oggi: è infatti del 1987 il celebre saggio Il sessismo nella lingua italiana [6]a firma della linguista Alma Sabatini, nel quale l’autrice espone le ragioni per le quali l’utilizzo del “maschile neutro” in italiano è tutt’altro che neutro, ma rispecchia una storia secolare di dominio patriarcale e riduzione della donna a “qualcosa di altro”. La lingua italiana, scrive Sabatini, è intrinsecamente androcentrica: basti pensare al fatto che la parola “uomo” denota sia il soggetto di sesso maschile sia, più in generale, un generico appartenente alla specie umana, maschio o femmina che sia; il termine “donna” può riferirsi solo alla specificazione sessuale. Va aggiunto, poi, che ancora oggi alcuni termini si fatica a declinarli al genere femminile, poiché un certo numero di professioni sono state aperte alle donne solamente in tempi molto recenti (si pensi all’apertura della carriera nella magistratura, avvenuta soltanto nel 1963, e la conseguente difficoltà che ancora oggi termini come “magistrata” hanno nell’inserirsi nel discorso comune). La supposta neutralità dell’uso del maschile esteso, scrive Sabatini, “occulta la presenza delle donne così come ne occulta l’assenza”.

È chiaro che a compiere le discriminazioni non è il linguaggio di per sé, ma l’utilizzo che ne fa la società. L’introduzione della schwa non si può certo porre come soluzione definitiva al dilemma dell’inclusività, in quanto presenta difficoltà oggettive quali, per esempio, la pronuncia per noi inusuale. Come sottolinea la sociolinguista Vera Gheno, il dibattito si pone ad oggi più sul campo politico che su quello linguistico. Tuttavia, soffermarsi a decostruire i meccanismi dati per neutrali che costituiscono la base del nostro agire e pensare quotidiano, individuandone il percorso storico e sociale, può di certo contribuire a una visione critica e consapevole del fenomeno. E a una maggiore comprensione delle rivendicazioni altrui.

[di Valeria Casolaro]