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In Africa l’industria dell’olio di palma si è dovuta piegare alle comunità

I progetti di svariate multinazionali volti a trarre profitto dall’industria dell’olio di palma in Africa, stanno fallendo e il merito è delle organizzazioni comunitarie per i diritti fondiari. A darne notizia è il nuovo report del [1] think-tank Chain Reaction Research, che si occupa di argomenti legati alla deforestazione. Il sogno di arricchirsi approfittando di territori altrui è scemato grazie all’impegno costante delle diverse ONG, intente a sostenere il rifiuto delle comunità nel vedere le proprie terre occupate per il profitto di certi magnati. I giganti multinazionali credevano infatti di arricchirsi spropositatamente, quando negli anni 2000 ci fu l’aumento dei prezzi delle materie prime. Il continente africano era molto appetibile e sembrava ottimo per la coltivazione della palma da olio e soprattutto l’Africa occidentale e centrale sono diventate le regioni più allettanti per delle enormi aziende. Così alcuni tra i maggiori produttori europei e del sud-est asiaticosi sono trasferiti in Liberia, Gabon, Nigeria, Sierra Leone, Camerun e Costa d’Avorio. La ragione è legata a una convenienza da più punti di vista, dalle concessioni dei Governi ai disordini politici che “favoriscono” una scarsa supervisione ambientale, fino alla grande quantità di terreno coltivabile disponibile ma anche di un clima favorevole.

Dal 2008 nell’Africa occidentale e centrale è stata data disponibilità per utilizzare circa 1,8 milioni di ettari di terreno per piantagioni industriali di olio di palma. Eppure, nonostante la “fame” delle multinazionali, tante aree sono rimaste libere da coltivazioni. Soprattutto in Liberia dove dei 755.000 ettari concessi inizialmente alle compagnie, solo il 7 percento (quindi 54.000 ettari) sono diventati piantagioni. Anche in Congo-Brazzaville la situazione è simile, con solo 1.000 ettari stimati (0,2 percento su 520.000 ettari disponibili) trasformati in piantagioni di palma da olio. Per quanto invece riguarda uno Stato come la Nigeria, se per molto tempo si è assicurato il primo posto come produttore mondiale di olio di palma, ora lo Stato africano è ancora sul podio se comparato agli altri stati del continente africano, ma è sceso al quinto posto a livello mondiale. E la principale ragione è legata all’acquisizione dei terreni, perché la terra su cui erano stati fatti tanti progetti e investimenti, con concessioni da parte dei Governi su carta, non prendevano in considerazione le popolazioni “figlie” di quella terra.

A dispetto quindi degli accordi su carta, la lotta di decine di migliaia di contadini e abitanti dei villaggi rurali ha fatto sì che in poco più di dieci anni, tante concessioni siano fallite: tra il 2008 e il 2019, 27 progetti che avrebbero dovuto coprire 1,37 milioni di ettari di terra sono falliti o sono stati abbandonati e nemmeno il 10 percento dei 2,7 milioni di ettari di foresta in concessione è stato convertito in piantagioni. La resistenza delle comunità locali è stata quindi feroce e tangibile, a dispetto di quel che credevano gli investitori stranieri, pronti a fare delle terre altrui piccole miniere d’oro. [2] Per quanto legati al “fallimento” si trovino anche motivi più connessi al terreno in sé e al mercato, la forte campagna da parte delle comunità agrarie e dei difensori della terra ha avuto i suoi succosi frutti. Nonostante le comunità che non hanno mai abbandonato la loro terra combattendo per essa, la maggior parte delle concessioni – per quanto “fallita” – esiste ancora sulla carta. Nel continente ci sono poi oltre 450.000 ettari di piantagioni di palme industriali su larga scala di cui più di 300.000 ettari sono di proprietà di sole cinque società e tra tutte spicca la Socfin, più grande produttore industriale di olio di palma in Africa. Con quasi 100.000 ettari in sette diversi paesi, la multinazionale è stata spesso attaccata dalle ONG e pesantemente criticata su più fronti, fino ad essere accusata lo scorso anno di evasione fiscale. Eppure, l’azienda resiste e persiste, occupando territori a discapito delle popolazioni e con un rispetto ambientale che esiste solo di facciata.

[di Francesca Naima]