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Bombe sui bambini o disinformazione? Cosa sappiamo di quanto successo a Mariupol

Prima che essere un esempio di devastazione da guerra, il bombardamento dell’ospedale pediatrico di Mariupol è un caso esemplare di confusione mediatica. Dichiarazioni, articoli di giornale, narrazioni, si sono rapidamente rincorse e smentite, rendendo impossibile farsi un’idea chiara di cosa sia successo il 9 marzo scorso. E questo non solo perché, come era prevedibile, la versione russa e quella ucraina sulla situazione all’ospedale sono diverse. Ma anche perché, in alcuni casi, sono le fonti di una stessa parte a divergere.

In questa situazione torbida, testate giornalistiche italiane non hanno comunque mancato di sospendere la deontologia professionale. Scegliendo arbitrariamente di trasmettere una sola versione, quella Ucraina, e spesso elevandola senza motivo a fonte certa e verificata, abbandonando oltretutto l’uso del condizionale. Ma le informazioni giunte, sino ad ora, non sono sufficienti per giudicare i fatti di Mariupol, rendendo evidente come siano  necessarie verifiche e conferme.

La notizia del bombardamento dell’ospedale pediatrico è stata data in primis dal premier ucraino Zelensky. Le sue parole [1], accompagnate da un video, sono state: «persone, bambini sono sotto le macerie. È un’atrocità! Per quanto tempo ancora il mondo sarà un complice che ignora il terrore? No fly zone adesso!». Tuttavia, quasi nello stesso momento, Pavlo Kyrylenko, attuale governatore del Donetsk Oblast, dichiarava [2] che nell’attacco erano rimaste ferite 17 persone, ma che a quanto si sapeva non era morto nessuno: né donne né bambini. 

Da parte russa, poco dopo, è arrivata una decisa smentita, carica di accuse di fake news. Dmitry Polyanskiy, primo deputato e rappresentante permanente presso le Nazioni Unite della Russia, ha polemizzato [3] per il modo in cui mezzi d’informazione occidentali e le stesse UN hanno parlato dell’accaduto: «Ecco come nasce una fakenews. Abbiamo avvertito nella nostra dichiarazione del 7 marzo che questo ospedale è stato trasformato in un oggetto militare dai radicali. Molto inquietante che l’ONU diffonda queste informazioni senza verifica».

Il comunicato russo del 7 marzo effettivamente esiste. È stato infatti pubblicato due giorni prima del bombardamento sul sito ufficiale [4] della Rappresentanza russa alle UN. Vi si legge che le Forze Armate ucraine avrebbero da un po’ di tempo occupato l’ospedale pediatrico di Mariupol, rendendolo un appostamento militare per il tiro: «I radicali ucraini mostrano il loro vero volto ogni giorno di più. La gente del posto riferisce che le forze armate ucraine hanno cacciato il personale dell’ospedale n. 1 della città di Mariupol e hanno allestito un sito di tiro all’interno della struttura. Inoltre, hanno completamente distrutto uno degli asili della città»

In rete è poi possibile leggere un articolo [5] di lenta.ru, sito di informazione russo, che confermerebbe la versione del comunicato. Pubblicato l’8 marzo, riporta il racconto di un cittadino, Igor, secondo cui l’ospedale di Mariupol era già stato evacuato e occupato da forze militari non identificate. Ecco il paragrafo in questione tradotto in Italiano: 

Igor ha detto che gli ultimi giorni di febbraio persone in uniforme sono arrivate all’ospedale di maternità, dove lavora sua madre. Riferisce che non sa se fossero combattenti delle Forze Armate ucraine o del battaglione nazionalista “Azov” (bandito nella Federazione Russa ). I militari hanno distrutto tutte le serrature, disperso il personale dell’ospedale e posizionato punti di fuoco, per preparare, come hanno spiegato ai medici, la “fortezza di Mariupol” alla difesa. La reazione dei militari alle obiezioni è standard: colpi con il calcio dei fucili, sparando in aria”.

A chi credere dunque? Le informazioni al momento non permettono di pendere da nessuna delle due parti. Siamo nel classico campo della battaglia informativa che accompagna ogni guerra

Ieri mattina, inoltre, la BBC ha pubblicato un video [6] dove Sergei Orlov, vice sindaco di Mariupol, dichiara che a causa del bombardamento ci sarebbero 17 persone ferite e 3 morti, fra cui un bambino. Le nuove dichiarazioni sono compatibili con quelle di ieri, fatte dal governatore Pavlo Kyrylenko, tuttavia non è chiaro se le persone decedute fossero all’interno dell’ospedale. 

Fra i quotidiani ucraini che hanno trattato l’aggiornamento, vi è ad esempio Lb.ua. che [7] riporta, come fonte, dei nuovi dati sulle vittime il profilo telegram del Comune di Mariupol. Effettivamente vi si trova un post [8] dove si parla di tre persone decedute. Però non si dice di un bambino fra queste, ma una bambina. E alcune testate [9], anche italiane, come l’Adn Kronos, hanno riportato che “il bambino” aveva 6 anni [10]. Il sospetto, a questo punto, è che vi sia un errore e che si tratti non di una vittima del bombardamento ma della bambina di 6 anni morta per disidratazione [11]

È in questo quadro ancora poco chiaro che testate come la Repubblica, hanno titolato “L’agonia di Mariupol: mamme e bambini colpiti in ospedale [12]”. Oppure “strage di donne e bimbi [13]”, come ha fatto il Giornale di Brescia. Ma il titolo più gridato è forse stato quello di La Stampa. Senza la minima prova infatti il quotidiano torinese titola “Orrore a Mariupol: i bambini nel mirino [14]” dando a intendere al lettore non solo che vi siano certamente morti e feriti, ma addirittura che l’intenzione russa fosse proprio quella di colpire civili, in particolare i più piccoli. 

Quale fosse l’intenzione dei russi è ancora da verificare, così come è da verificare ogni lato di questa notizia. Abbiamo invece certezza su quella dei giornalisti italiani che se ne sono usciti con titoloni: sposare la narrazione comoda all’Occidente e ignorare tutto il resto. Evidentemente, quando si tratta di guerra in Ucraina, non interessa più come stiano davvero le cose. Non c’è bisogno di verificare, è vero, giusto, fondato, solo ciò che viene una delle due parti in causa. E, naturalmente, al pubblico italiano va riportato con qualche esagerazione o abbellimento emotivo: così si fanno pure tanti click. Ma questa non è deontologia giornalistica. 

[di Andrea Giustini]