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Siamo tutti mediterranei, una storia di identità e stereotipi

Nel 2009 il grande pubblico italiano scoprì, quasi all’improvviso, di essere considerato dagli altri membri dell’Unione Europea, come uno stato in perenne crisi, incapace di onorare gli accordi e economicamente inefficiente, non un partner alla pari, bensì una zavorra di cui liberarsi, come il tono di molti articoli dell’epoca ben testimonia. In questo giudizio l’Italia non era sola, ma accompagnata da altri paesi: Grecia, Spagna e Portogallo, chiamati assieme con l’acronimo PIGS. Se aggiungiamo le loro difficoltà istituzionali e la successiva esplosione della crisi migratoria che ha destabilizzato tutta l’UE, deteriorandone i costrutti fondamentali (con la parziale sospensione di uno dei suoi fondamenti, la libera circolazione), non sorprende allora che il Sud Europa e il bacino del Mediterraneo vengano considerati l’epicentro del problema, se non proprio la principale e forse unica causa delle difficoltà europee. Questa non è però una verità fattuale, bensì ideologica che crea una contrapposizione etica e morale tra due realtà percepite come davvero distinte: un’Europa continentale affidabile, produttiva e ordinata, e un mondo mediterraneo caotico, improduttivo e, ça va sans dire, assolutamente inaffidabile.

La stessa etichetta di PIGS non è neutra, ma ha un chiaro valore negativo e discriminatorio verso quei paesi, i quali ne hanno più volte contestato l’uso. La scelta dei PIGS non era né casuale, né dettata da motivi solo economici. Identificando infatti il ventre molle d’Europa con gli stati del Sud (tutti alle prese con evidenti difficoltà ma non necessariamente più gravi di alcuni paesi centro-europei), puntava a sottolinearne la loro diversità dal resto – virtuoso – dell’Unione. I paesi meridionali erano raccontati come maiali, cioè moralmente riprovevoli, untori volontari e consapevoli della crisi economica per le loro inaffidabilità tipicamente mediterranea. Ma che cos’è l’identità mediterranea e come si definisce? E poi, quando quest’area geografica è diventata sinonimo di sottosviluppo, fragilità economica ed insolvenza, in altre parole di problema? Sono state le crisi finanziarie e migratorie, o queste hanno solo evidenziato una narrazione già esistente?

Come è grande il Mare

Per rispondere è necessario chiedersi cosa sia il Mediterraneo, geograficamente e idealmente, così da capire cosa si intenda per civiltà mediterranea, se sia corretto parlarne e, in definitiva, cosa la caratterizzi. Innanzitutto definire con precisione i confini dell’area mediterranea non è così semplice come potrebbe sembrare. Se per molti questa dovrebbe essere limitata ai paesi che geograficamente vi si affacciano, e nemmeno tutti, visto che, ad esempio, la Francia spesso rifiuta di essere collocata tra i paesi mediterranei, lo storico francese Braudel parla invece di Mediterraneo ingrandito, una zona ben più ampia del bacino marino, e che comprende tutte le terre “dove cresce l’ulivo e il pino”. Definizione empirica, ma sufficientemente chiara, che ha il merito di collocare all’interno della mediterraneità terre come il Portogallo, il Marocco atlantico, ma anche il Vicino Oriente e le coste del Mar Rosso e del Mar Nero, tutte profondamente interconnesse con il Mediterraneo. E negli anni ’30 fa lo stesso il capitano di vascello Francesco Bertonelli, che teorizzava un Mediterraneo allargato, i cui confini strategico-commerciali vanno dal Golfo di Guinea a Ovest, dal Mar Nero a Nord, dalle coste settentrionali del Madagascar al Golfo Persico a Sud-Est.

È evidente quindi che l’area mediterranea non può essere limitata né storicamente né geograficamente alle sole terre che si affacciano sul Grande Mare, ma comprende anche quelle regioni limitrofe simili che proiettano il loro baricentro verso di lui, che riconoscevano e riconoscono il Mediterraneo fondamentale nel loro sviluppo politico-amministrativo e come risorsa economica privilegiata. Del resto si tratta di uno dei mari più pescosi, abitato dal 7,5% delle specie marine mondiali. La sua centralità non è però data solo dalla mitezza del clima o dalla pescosità delle sue acque, ma da un altro fattore, forse il più importante: la facilità di navigazione che lo caratterizza per buona parte dell’anno l’ha reso infatti più che un confine, uno straordinario vettore di comunicazione, sul quale popoli, idee, fedi, conoscenze e ricchezze hanno viaggiato ininterrottamente per secoli. Ed è proprio pensando al Mediterraneo e all’effervescenza dei suoi scambi che Bakunin teorizzerà la lontananza dal mare come la principale causa della stagnazione culturale di un popolo.

Un mare di città

Partendo dall’Egitto e dal Vicino Oriente sorge e fiorisce sulle rive del Grande Mare un reticolo di civiltà che competono e si mescolano tra loro in un ciclo quasi infinito. Diverse per lingua e religione, tendono però a condividere tra loro molti aspetti comuni, e cioè l’organizzazione in città. Bisogna fare attenzione però quando nel mondo antico si parla di città, perché non si tratta solo di insediamenti abitativi, come i villaggi, ma dei luoghi di aggregazione sociale dove si esercita il potere politico, amministrativo, ma anche simbolico e sacrale sul territorio circostante. Per quasi tutti i popoli mediterranei, dalla Mesopotamia a Roma, città e civiltà erano assolutamente sinonimi. Chi non si conformava a questa visione del mondo era percepito come estraneo, e più spesso come primitivo e barbaro. E queste città esistevano e potevano esistere perché erano collegate tra loro attraverso il mare e nell’entroterra attraverso la ragnatela dei fiumi, una fitta rete di relazioni che le manteneva collegate tra loro. Non è un caso infatti che le città si diradino man mano che ci si inoltra lontano dalle coste, lontano dai fiumi che sfociano nel Mediterraneo, fino a scomparire del tutto. Né è un caso che la maggior parte delle città continentali antiche apparirà soltanto per volontà romana, sempre come centri amministrativi delle nuove conquiste, collegati al Mare attraverso una nuova rete comunicativa: le strade. È attraverso questa arteria di strade e rotte navali che in seguito alla Diaspora il popolo ebraico si insedierà in tutte le terre allora conosciute, come sarà sempre grazie a queste direttrici che Roma adotterà la cultura greco-ellenistica e, successivamente, si diffonderà il Cristianesimo.

La nascita dell’Europa

L’implosione dell’Impero Romano d’Occidente a causa delle invasioni barbariche del V secolo cambierà però questo assetto, almeno per quanto concerne l’Europa occidentale: se infatti nel Mediterraneo Orientale la rete di scambi culturali ed economici non si interrompe, anzi sembra rifiorire dopo le invasioni arabe del VII-VIII secolo, l’Occidente subisce un profondo processo di ruralizzazione. La civiltà cittadina importata da Roma in buona parte del continente si ritirerà drammaticamente, con la parziale eccezione dell’Italia, spingendolo quindi inesorabilmente alla periferia del mondo civile, a quest’epoca ancora centrato nel Mediterraneo allargato. È però proprio in quest’epoca di marginalizzazione che si comincia ad elaborare l’idea di un’identità europea continentale, condivisa, pur con tutte le differenze, a tutti i popoli del continente e il cui primo nucleo, quello che da molti è stato identificato come il vero cuore europeo, è riconoscibile nell’impero di Carlo Magno: Francia, Germania e Italia Centro-settentrionale. Anche se queste due identità sono per certi versi contrapposte, molte aree geografiche – come il Sud della Francia, la Spagna o l’Italia del Nord – si sentiranno (e verranno a loro volta percepite dagli altri) come più affini ora all’una, ora all’altra.

Questa nuova identità continentale è la base di ciò che oggi chiamiamo impropriamente Occidente, ma in quest’epoca non ha ancora nessun giudizio di merito. Per i successivi otto-nove secoli sarà sempre il Mediterraneo il cuore ideale della civiltà: è lì che si trovano gli imperi più floridi e le città più ricche, è lì dove avvengono i principali scambi economici e culturali. Il resto del continente ne beneficia quando riesce ad inserirsi in questo intenso sistema di traffici, e le città italiane si arricchiscono oltre misura proprio facendo da cerniera tra questi due mondi. Ma dal XVI secolo la situazione cambia. L’affermarsi dell’egemonia ottomana e il diffondersi della Riforma Protestante rafforzano il senso di distacco e diversità centro-europeo nei confronti del Mediterraneo: mondo cristiano vs. mondo musulmano, mediterranei cattolici vs. protestanti. Se a ciò si aggiunge anche il progressivo slittamento del baricentro economico e politico verso l’Oceano Atlantico a seguito delle grandi scoperte geografiche, si vede facilmente come da culla di civiltà il Mediterraneo lentamente venga percepito come un confine, come la periferia del “mondo civile”.

Se ancora nel 1610 Maria de’ Medici, appena incoronata Regina di Francia, può lamentarsi del palazzo reale del Louvre, dicendo che non ci avrebbe fatto vivere nemmeno i suoi servi, un secolo dopo il rapporto si è completamente invertito, il Mediterraneo non è più culla di civiltà, ma una zona sottosviluppata, i paesi del Sud sono decadenti, spesso caotici e sporchi, come noteranno a più riprese molti viaggiatori del ‘700 e dell’800, soprattutto con l’affermarsi dell’industrializzazione. Si affermano gli stereotipi sugli abitanti: furbi, amanti della bella vita, irascibili, passionali, orgogliosi, caratteristiche che, a prima vista sembrerebbero neutre, ma che in realtà esprimono un giudizio di superiorità nei loro confronti: l’uomo civile è compassato, flemmatico come direbbero gli Inglesi dell’epoca, cioè capace di filtrare attraverso la propria ragione la sua parte istintuale, di conseguenza i mediterranei, che non sono in grado di farlo, sono primitivi, uomini a metà, inaffidabili perché poco razionali, e che vivono tra le gloriose rovine greche e romane senza capirle, senza poterle ereditare, visto che la civiltà, la tecnologia, la ricchezza ed il progresso ora sono a Nord.

Dallo stereotipo alla formulazione razzista il passo poi è breve, e infatti nell’Ottocento pensatori come Ripley e Gobineau teorizzarono la razza mediterranea come inferiore, proprio per quel suo carattere di mescolanza e di continuo scambio propiziata dalla navigabilità del Grande Mare. Ideologia questa che ha poi sostenuto, incentivato e giustificato il colonialismo – soprattutto francese – nel Nord Africa. Nonostante l’apertura del Canale di Suez abbia ricollocato il Mediterraneo come uno dei principali vettori di scambi economici, la sua percezione ancora oggi non di discosta molto dall’immagine di periferia della civiltà occidentale maturata nel XVIII secolo. Anzi, l’affermarsi negli ultimi 30 anni della dottrina del Greater Middle East promossa dagli Usa e dalla Nato, che nell’antagonismo al cosiddetto radicalismo terrorista islamico riconosce un’unica area di intervento che va dal Marocco all’Asia Centrale, non ha fatto che acuire l’idea che la zona mediterranea fosse un confine, e non una zona di scambi. Né è riuscita a intervenire l’Unione Europea che dopo aver promosso nel ’98 il Partenariato euro-mediterraneo e dieci anni dopo l’Unione per il Mediterraneo per impulso francese (pensate nelle intenzioni originarie per portare alla creazione di un mercato comune e alla stabilità della regione), sostanzialmente se ne è lavata le mani, preferendo volgere l’attenzione all’Est del continente.

[di Jacopo Marcello Del Majno]