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Covid, provata la correlazione tra inquinamento e tasso di mortalità

L’inquinamento atmosferico da biossido di azoto aumenta il rischio di mortalità in pazienti ospedalizzati per Covid-19. A dimostrarlo, per la prima volta in modo diretto e secondo un approccio clinico, uno studio pubblicato su Environmental Science and Pollution Research [1]. Secondo i ricercatori, l’esposizione all’inquinante nel corso di due settimane precedenti il ricovero per polmonite virale provoca delle alterazioni del sistema immunitario che incrementano la vulnerabilità dei pazienti ospedalizzati. Il biossido di azoto è emerso quindi come un co-fattore in grado di influenzare negativamente il decorso della patologia.

Che l’inquinamento atmosferico potesse essere legato ad un’evoluzione sfavorevole della Covid-19 si era sospettato già dai primissimi mesi della pandemia. I primi studi condotti suggerivano però solo correlazioni prive di nesso causale. In altre parole, si è osservato più volte che la mortalità era più alta in aree con le più elevate concentrazioni di inquinanti. Il che, tuttavia, non indicava necessariamente una relazione causa-effetto. Nel caso dello studio della Società internazionale dei medici per l’ambiente, sebbene comunque non sia stato possibile dimostrare la causalità, si è avanzata invece un’ipotesi più concreta sull’influenza diretta di uno dei principali contaminanti dell’aria. Per giungere a tali conclusioni, gli scienziati hanno reclutato 147 pazienti con un età media di 66,8 anni, provenienti da 10 città della Puglia e ricoverati presso il Policlinico di Bari per polmonite acuta da SARS-CoV2. Successivamente, nella zona di residenza di ogni paziente, sono state osservate le concentrazioni medie giornaliere nell’aria del particolato (PM10) e del biossido di azoto (NO2) durante le 2 settimane precedenti il giorno del ricovero. Hanno poi analizzato il sangue di ogni ospedalizzato al fine di valutare la concentrazione di diversi gruppi di linfociti, cellule adibite alla difesa immunitaria. Le analisi statistiche condotte sui dati raccolti hanno individuato nelle concentrazioni medie di NO2 dei predittori significativi di mortalità, inversamente correlati con il numero di linfociti. Un aumento del rischio persistente anche dopo la correzione per età, sesso e presenza di altre patologie. Per il PM10, invece, non è stato rilevato alcun effetto significativo.

Lo studio ha confermato, inoltre, il legame tra carenza linfocitica e rischio di morte nei pazienti ospedalizzati per COVID-19. «Confermiamo il valore prognostico negativo dell’età – aggiungono i ricercatori – e mostriamo per la prima volta che l’esposizione all’NO2 è un co-fattore che contribuisce al rischio di mortalità attraverso effetti immunitari negativi». Precedenti evidenze – precisano poi – hanno già suggerito che l’inquinamento atmosferico può influenzare sia l’incidenza che il decorso clinico della COVID-19 e che il rapido sviluppo della pandemia in alcune regioni geografiche, come nel caso della Lombardia [2], potrebbe essere dipeso dall’inquinamento atmosferico nelle stesse aree. In uno studio temporale cinese, le esposizioni a breve termine a tre differenti inquinanti dell’aria sono state collegate con l’incidenza di Covid-19, mentre i dati di 33 paesi europei hanno indicato correlazioni dirette tra il numero cumulativo di decessi e le concentrazioni nell’aria di PM10, PM2.5, ammoniaca, biossido di zolfo, ossidi di azoto e composti organici volatili. Le correlazioni più forti sono emerse per gli inquinanti più comuni e abbondanti. Le misure di prevenzione primaria finalizzate a ridurre l’inquinamento atmosferico, specie in ambito urbano – concludono così i ricercatori – potrebbero significativamente ridurre la vulnerabilità individuale e la gravità dell’infezione, soprattutto in soggetti a rischio.

[di Simone Valeri]