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Mediterraneo, un mare di sguardi

Il Mediterraneo è l’orizzonte della nostra civiltà. Lo possiamo pensare in sé come estensione di acque, quasi come un continente liquido, la distesa, così cantava Omero, che “ebbe in sorte l’onore dei numi”, che ha visto nascere Venere, la quale “fea quell’isole feconde col suo primo sorriso” (Foscolo). Il Mediterraneo, mare per antonomasia nel mondo antico, il mare cosmogonico che nel mito accadico di Etana in volo con l’aquila (III millennio a.C.) venne visto in prospettiva come un cesto, il mare che Basilio di Cesarea (IV sec. d.C) indicava, alla creazione del mondo, come circoscritto entro precisi confini, il mare dei vari popoli, delle mille isole, delle tante lingue.

Molte parole sono nate dal mare, ‘arrivare’, ad esempio, cioè guadagnare la riva, ‘passaporto’, essere ammessi all’attracco in un porto, ‘abbordare’, affiancare, dare l’avvio, ‘equipaggio’ dal germanico skip ‘barca’, ‘fornire del necessario ad una imbarcazione’… 

L’andirivieni del mare, e dal mare, che ha raffigurato l’attesa, l’ansia, la lotta, la malinconia, gli scontri, le bufere, i naufragi, gli orizzonti. Il Mediterraneo come grande macchina poetica, narrativa, musicale: “Osservare tra frondi il palpitare/ lontano di scaglie di mare/ mentre si levano tremuli scricchi/ di cicale dai calvi picchi”, E. Montale, Ossi di seppia. “Il più bello dei mari/ è quello che non navigammo./ Il più bello dei nostri figli/ non è ancora  cresciuto. / I più belli dei nostri giorni / non li abbiamo ancora vissuti./ E quello/ che vorrei dirti di più bello/ non te l’ho ancora detto”, N. Hikmet, Turchia. “I pescherecci erano molto al largo. Erano usciti col buio al primo levarsi della brezza e il giovane e la ragazza si erano svegliati e li avevano sentiti e allora si erano rannicchiati insieme sotto il lenzuolo. Avevano fatto l’amore ancora mezzo addormentati… Dopo si erano sentiti così affamati da temere di non arrivare vivi a colazione e ora erano al caffè e mangiavano e guardavano il mare e le vele ed era un altro giorno”, E. Hemingway, The Garden of Eden. Golfo del Leone, Francia.

Il mare allora come caleidoscopica forma metaforica, il “gran mar de l’essere” di cui scrive Dante, a rappresentare la vita stessa e il suo divenire.

Il Mediterraneo, davvero un mare tra terre, percorso da mercanti e da eroi, attraversato da rotte mercantili, da Troia, al suo estremo oriente, a Cartagine, e poi approdo di carovane, confine mobile di domini politici e di influenze religiose, per cui già prima del Mille “la metà inferiore del Mediterraneo si trasformò in un lago soggetto all’islam, che offriva nuove, splendide opportunità commerciali” (D.Abulafia, Il grande mare, Mondadori 2010, p. 252). E prima ancora il mare dei mercanti di porpora, naviganti diretti in Etruria, in Sicilia, in Grecia, e poi nelle lontane Tiro e Sidone, in partenza da Cartagine (Qart Hadasht, la città nuova), i cui abitanti da allora vennero detti Fenici, dal nome greco dell’inchiostro ricavato da un mollusco. 

Come annota Abulafia nella sua splendida ricerca, di questi spostamenti di uomini e cose i greci serbavano memoria in un corpo di miti gravitanti intorno agli antenati: storie di intere comunità salite a bordo di navi e migrate a centinaia di miglia di distanza. E la civiltà mediterranea è costituita proprio da vari sconfinamenti, da invasioni e dai conseguenti inevitabili scontri, perché sul mare, in tempo di pace, si è tutti, o quasi, fratelli, ci si danno le mani per accostare le barche ma, una volta scesi a terra, è facile capire le intenzioni di chi approda. E allora inevitabilmente le torri di guardia, i castelli sul mare e i fari, questi ultimi sentinelle a salvaguardia della navigazione di tutti e di chiunque.

Genova, Pisa, Venezia, Amalfi sono state flotte oltre che repubbliche, il Medioevo è impensabile senza le orde barbariche e barbaresche, senza gli imperi la cui forza dipendeva anche dal controllo delle rotte, rotte che talora rappresentavano la prosecuzione dei percorsi carovanieri dai deserti africani.

L’intero corso storico del colonialismo è impensabile senza la navigazione oceanica ma anche senza gli orizzonti tumultuosi del nostro grande mare. Anche qui con andirivieni che la storia ricorda e non perdona. Ma che chiede continuamente soluzioni da reinventare. 

Il Mediterraneo ha finito così, conclude Abulafia, “per diventare forse il più dinamico luogo di interazione tra società diverse sullo faccia del pianeta, giocando nella storia della civiltà umana un ruolo assai più significativo di qualsiasi altro speccho di mare” (p. 614).

Chi è curioso degli stati attuali delle cose faccia ricerche dunque sulle vaste aree di influenza degli imperi, all’albore dei tempi moderni quelli di Spagna e Portogallo, si chieda perché gli inglesi e il Regno Unito avevano o hanno ancora la loro presenza da Gibilterra a Cipro, perché la seconda guerra mondiale ha mostrato nel Mediterraneo, grazie alle flotte delle diverse potenze in gioco, una logica di scontri e un prevalere di forze per un certo tempo differente dal cuore terrestre dell’Europa. Il Mediterraneo ci ha dato la possibilità di pensare le guerre anche in un altro modo, come ha fatto vedere il film di Gabriele Salvatores: chi vuole davvero la guerra e a chi la fa combattere, e chi la deve soltanto subire. E la varietà delle etnie  che si mette in mostra negli equipaggi e nei popoli a terraferma che vengono a contatto.

Gli uomini del mare, tradizionalmente intesi, non sono soltanto pescatori e mercanti perché c’è chi lavora duramente in cantiere, per costruire navi da guerra e navi da crociera, per  innalzare armamenti o viceversa allestire a bordo piscine galattiche. Le donne del mare non sono soltanto in attesa, lavorano duramente nell’industria conserviera, vendono il pesce, inventano incantevoli ricette povere e ricche. Senza dimenticare che, sempre nella tradizione, le donne preparano le maglie per chi va in mare ma sono gli uomini, ancora adesso, a riparare le reti. Ora comunque che gli orizzonti si sono moltiplicati, questi archetipi si sono resi comuni, messi a disposizione di un modo perenne e nuovo di pensare al mare. 

Pescare, pescatore: la attività ma anche la metafora che ha i suoi risvolti sacri, religiosi, che illumina tutti i tempi di una umanità che cerca, che attende, che lotta, che ama scoprire ma anche tornare a casa con un piccolo bottino per continuare a vivere.

Se amate il mare, amerete anche l’Albeggiatore, un uomo che solo con la sua barchetta dotata di una vela fatta di stracci, salpava all’alba nel Mediterraneo di fine Ottocento, ad esempio dalle coste francesi della Provenza, armato delle sue lunghe fiocine, e viveva del pesce che riusciva a pescare.

Lo racconta un manuale tecnico del 1896 di P. Gourret che ho avuto la fortuna di trovare presso un brocante in Francia; il testo anticipa anche i problemi dell’inquinamento e dell’approvvigionamento ittico, dando prova di una profonda conoscenza e visione. Mediterraneo dunque da vedere, da mangiare, da scoprire, da pregare, come dice la canzone di Mango. Il grande libro di David Abulafia, sì, ma anche il vecchio pescatore possono darci una lezione di storia. Reale e immaginaria.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]