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Con il PNRR l’Europa ci dona soldi? I 528 vincoli da rispettare di cui non si parla

Quando parliamo di PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) – ovverosia del piano che dovrebbe “rilanciare” l’economia italiana nel contesto del programma Next Generation EU (NGEU) dell’Unione europea, il cosiddetto “Recovery Fund” –, è importante innanzitutto chiarire cosa non è. A differenza di come è stato presentato, il PNRR non è una misura così risolutiva dal punto di vista economico, e soprattutto ipotecherà per gli anni a venire le politiche dei Paesi europei, di fatto segnando un nuovo punto nel loro commissariamento da parte delle istituzioni europee. Nonostante la retorica martellante sul “fiume di soldi” in arrivo dall’Europa, infatti, la verità è che parliamo di cifre non decisive dal punto di vita macroeconomico: circa 200 miliardi spalmati nel corso di sei anni (in parte a debito e in parte “a fondo perduto”). Se a prima vista potrebbero sembrare tanti – e rispetto alle disponibilità economiche comuni lo sono senz’altro – è opportuno ricordare che la spesa pubblica italiana nel 2021 è arrivata quasi a 1.000 miliardi di euro. In altre parole, in un solo anno, l’Italia spende quasi cinque volte i fondi che il PNRR metterà a disposizione dell’Italia nel corso di sei anni. Non è un caso che l’editorialista del Financial Times, Wolfgang Münchau, abbia definito [1] il programma NGEU «macroeconomicamente irrilevante»

Una misura macroeconomicamente irrilevante

D’altronde, è lo stesso Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) a certificare [2] che l’impatto sulla crescita delle risorse del PNRR nel corso di quest’anno e di quello a venire sarà rispettivamente dello 0,4 e allo 0,8 per cento del PIL. Briciole o poco più: altro che rilancio dell’economia. Ciò non sorprende se teniamo conto del fatto che, nonostante il NGEU, gli investimenti pubblici in rapporto al PIL quest’anno si assesteranno comunque al di sotto del livello del 2009 [3]. E che i fondi “aggiuntivi” del PNRR in realtà dovranno essere “compensati da riduzioni di altre spese o aumenti delle entrate [al fine di] riequilibrare la finanza nel medio termine dopo la forte espansione del deficit”, come si legge nel PNNR [4]E questo senza considerare che parliamo di soldi che, in un modo o nell’altro, andranno restituiti praticamente tutti (anche quelli “a fondo perduto” [5]). 

Insomma, come palesano gli stessi dati del governo, il PNRR è uno strumento che per il rilancio dell’economia (e soprattutto dell’occupazione) si rivelerà tutt’altro che decisivo. Quello, infatti, richiederebbe cifre ben più rilevanti, nell’ordine di centinaia di miliardi all’anno. Ma se il PNRR non serve a rilanciare l’economia, allora a cosa serve? E perché da un anno a questa parte viene descritto da politici e giornalisti come lo strumento apotropaico da cui dipendono le sorti dell’Italia?

Rafforzare i vincoli europei

La verità è che il PNRR è uno strumento prettamente politico che serve a rafforzare ulteriormente il vincolo esterno europeo (sia a livello concreto che psicologico) e la subordinazione dell’Italia ai centri di comando dell’Unione europea e agli Stati ivi dominanti. I soldi, insomma, si rivelano principalmente un’esca. Per capire perché, dobbiamo guardare alle centinaia di clausole che vanno rispettate per ottenere quelle risorse. Le risorse del PNRR, infatti, arriveranno all’Italia sotto forma di rate semestrali, l’erogazione delle quali è subordinata, da un lato, alla solita disciplina di bilancio (tagli alla spesa pubblica e/o aumenti di tasse) e più in generale a “una sana governance economica”, come già detto, e dall’altro a un dettagliatissimo piano di riforme – illustrate nel PNRR – che convergono sull’obiettivo di abbattere gli ultimi residui di Stato sociale e completare la neoliberalizzazione dell’economia italiana iniziata trent’anni or sono con la firma del Trattato di Maastricht [6]

528 condizioni da rispettare

Per la precisione, parliamo di ben 528 (cinquecentoventotto!) condizioni, illustrate nell’Allegato riveduto della Decisione di esecuzione del Consiglio [7] relativa all’approvazione della valutazione del piano per la ripresa e la resilienza dell’Italia. Queste si suddividono in 214 traguardi da raggiungere e 314 obiettivi quantitativi da conseguire per il tramite di 63 riforme e 151 investimenti. Le misure riguardano quattro ambiti principali – la riforma della pubblica amministrazione (PA), la riforma della giustizia, la semplificazione legislativa e la promozione della concorrenza – e sono tutte ispirate al dogma neoliberale della “eliminazione dei vincoli burocratici” (leggi: controlli pubblici e democratici) che impediscono di “liberalizzare” l’economia, come si legge nel PNRR.

Rientra in tale ambito, per esempio, il decreto-legge 77/2021, che deregolamenta pesantemente le procedure di appalto, derogando ad una serie di prescrizioni poste a tutela dell’ambiente e della legalità delle procedure (accertamenti relativi alla compatibilità ambientale, verifiche antimafia ecc.), con il probabile risultato di facilitare le speculazioni edilizie. Questo obiettivo sarà ulteriormente favorito dalla carenza ormai strutturale di organico all’interno delle pubbliche amministrazioni e degli enti controllori, che il PNRR non fa nulla per risolvere, anzi: posto il divieto di impiegare le risorse del PNRR per finanziare assunzioni a tempo indeterminato, con la conseguenza che i lavoratori impiegati nel contesto del PNRR saranno assunti a tempo determinato, il Piano non farà che acuire la precarizzazione del settore pubblico. 

Rendere più facili sfratti e pignoramenti

Un’altra condizione richiesta dal PNRR, sempre in nome della “semplificazione”, è l’accelerazione delle procedure per l’esecuzione immobiliare, che consentirà alle banche e ai palazzinari di realizzare molto più rapidamente i pignoramenti delle case dei debitori. In tema di giustizia, poi, le istituzioni europee hanno preteso una riforma lampo del processo civile e del processo penale: per accelerare i tempi della giustizia, oggettivamente troppo dilatati, si è però scelta ancora una volta la via della mera semplificazione delle procedure, con il risultato di favorire chi ha le risorse necessarie per tirare i processi per le lunghe, a scapito dei comuni cittadini. 

Insistere con le privatizzazioni forzate

Ma è nell’ambito della “promozione della concorrenza”, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni che rientrano molte delle condizioni previste dal PNRR, finalità per la quale si preannuncia una capillare e “sistematica opera di abrogazione e modifica di norme anticoncorrenziali”, comprendente “la rimozione di molte barriere all’entrata dei mercati» e la modifica «in senso pro-concorrenziale” dei “regimi concessori” in praticamente tutti i settori: servizi pubblici locali, energia, trasporti, rifiuti, concessioni stradali. Un primo, importante passo in questa direzione è stato compiuto con il DDL “Concorrenza” approvato a fine 2021 dal governo Draghi, che per la prima volta, in ossequio alle richieste dell’Europa e al progetto che Draghi persegue fin dagli anni Novanta, apre alla privatizzazione di tutti i servizi pubblici locali [8], nessuno escluso. [9]

Aumentare l’intervento privato nella sanità

Senza alcun senso del ridicolo si dice che il provvedimento ha lo scopo di “promuovere lo sviluppo della concorrenza e di rimuovere gli ostacoli all’apertura dei mercati […] per rafforzare la giustizia sociale, la qualità e l’efficienza dei servizi pubblici, la tutela dell’ambiente e il diritto alla salute dei cittadini”. Peccato lo stesso DDL ribadisca la volontà di continuare a foraggiare le strutture sanitarie private [10], che ogni anno ricevono dallo Stato oltre 40 miliardi di euro, con un peso del privato che negli anni è andato vieppiù crescendo rispetto al pubblico. D’altronde l’attuale presidente dell’Authority sulla concorrenza lo aveva detto chiaramente [11]: «Alla sanità serve più privato». E così sarà. Con buona pace della salute dei cittadini e della retorica nauseabonda degli ultimi due anni. 

Insomma, quale sia la direzione in cui vanno le condizionalità del PNRR è fin troppo evidente. Ma c’è un altro punto da tenere a mente, ovverosia che nuove riforme possono aggiungersi in qualunque momento. I paesi beneficiari delle risorse UE, infatti, dovranno rispettare le raccomandazioni specifiche per paese (country-specific recommendations) redatte ogni anno dalla Commissione, che abbracciano praticamente ogni aspetto della politica economica dei paesi membri – politica fiscale, mercato del lavoro, welfare, pensioni ecc. –, oltre ai nuovi obiettivi (“Green Deal” e digitalizzazione), in linea con la sorveglianza rafforzata dei bilanci nazionali prevista dal Semestre europeo. Per avere un’idea del tipo di “raccomandazioni”, si consiglia la lettura di un recente rapporto [12] commissionato dall’europarlamentare della Linke Martin Schirdewan, che si è preso la briga di studiarsi tutte le raccomandazioni formulate dalla Commissione europea nell’ambito del Patto di stabilità e crescita e della Procedura per gli squilibri macroeconomici tra il 2011 e il 2018. 

Smantellare le tutele sul lavoro

I risultati sono da far accapponare la pelle. Lo studio mostra come, oltre ad insistere ossessivamente sulla riduzione della spesa pubblica, la Commissione si sia concentrata in particolare sulla riduzione della spesa relativa alle pensioni, alle prestazioni sanitarie e all’indennità di disoccupazione, oltre a chiedere il contenimento della crescita salariale e la riduzione delle misure di garanzia della sicurezza sul lavoro. In particolare, dall’introduzione del semestre europeo nel 2011 fino al 2018, la Commissione ha formulato ben 105 raccomandazioni distinte nei confronti degli Stati membri affinché aumentassero l’età pensionabile e/o riducessero la spesa pubblica relativa alle pensioni e all’assistenza per gli anziani. Inoltre, ha anche formulato 63 raccomandazioni ai governi affinché riducessero la spesa per l’assistenza sanitaria e/o esternalizzassero o privatizzassero i servizi sanitari

Infine, la Commissione ha formulato 50 raccomandazioni volte a reprimere la crescita dei salari e 38 raccomandazioni volte a ridurre la sicurezza sul lavoro, le tutele occupazionali contro il licenziamento e i diritti di contrattazione collettiva di lavoratori e sindacati. Storicamente, però, alla Commissione sono sempre mancati strumenti idonei per obbligare gli Stati al rispetto delle proprie disposizioni. Un “difetto” a cui Bruxelles ha oggi trovato il modo di supplire proprio con il programma NGEU, che per la prima volta offre alla Commissione un dispositivo efficacissimo per imporre le proprie raccomandazioni anche ai governi più recalcitranti, riassumibile nel concetto “niente riforme, niente soldi”

Un dispositivo che trasuda ideologia neoliberale

In pratica, con il PNRR, non solo si conferma la funzione principale dell’Unione europea nella sua essenza di dispositivo neoliberale, ma assesta l’ultimo colpo, sostanzialmente mortale, alla sovranità democratica italiana, anche da un punto di vista meramente formale. Con il PNRR, infatti, l’Italia si è impegnata a realizzare una serie di riforme su un arco temporale che supera abbondantemente l’orizzonte politico del governo in carica. 

Come scrive il collettivo di economisti Coniare Rivolta: «Non importa quali siano i prossimi governi, cosa votino i cittadini, quali maggioranze parlamentari possano affermarsi: fino a che l’Italia resta nel campo della compatibilità con la cornice istituzionale dell’Unione europea, il paese ha già tracciato davanti a sé un programma politico che, passando per le tappe forzate scandite dal PNRR, eroderà i residui diritti sociali e imporrà, in misura ancora più pervasiva, l’interesse privato di pochi sul benessere collettivo della popolazione. Il principio che si afferma con il PNRR è chiaro: la politica economica del nostro paese viene esplicitamente determinata all’infuori del processo democratico. Non più solamente per quanto riguarda i livelli di spesa pubblica, limitati entro i vincoli di bilancio imposti da Maastricht in poi, ma anche il suo contenuto e tutte le riforme che fanno da contorno al processo di deregolamentazione dei mercati in favore dei profitti privati». 

D’altronde, l’ha detto chiaramente lo stesso Draghi quando, mentre cercava di convincere i partiti ad eleggerlo al soglio quirinalizio, aveva ammonito sul fatto che il solco della politica economica per i prossimi anni era ormai tracciato: «Il governo ha creato le condizioni perché il PNRR continui indipendentemente da chi ci sarà [alla guida del governo]», sostanzialmente confermando che al giorno d’oggi le elezioni non contano quasi più nulla, dal momento che le decisioni determinanti vengono prese altrove, ovvero negli apparati tecnocratici dello Stato incaricati di attuare i diktat dell’UE – dettati che oggi, grazie al PNRR, sono più forti che mai.

[di Thomas Fazi]