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La politica italiana dopo il voto per il Quirinale

Il “Romanzo Quirinale” andato in scena negli scorsi giorni, terminato con la rielezione di Sergio Mattarella, ha riservato molti colpi di scena prima di concludersi con l’esito più banale. D’altronde, in una sfida così delicata, si fanno molto labili le sfumature tra le nette prese di posizione e i messaggi tra le righe, le parole d’onore e i fragorosi bluff, la ricerca di un obiettivo comune e la necessità di intestarsi il risultato finale. Le elezioni presidenziali sono state caratterizzate, in particolare, da due fattori salienti: le sconfitte a metà e le fratture politiche, che potrebbero avere un peso determinante sul prossimo futuro.

Chi ha perso? Sicuramente Mario Draghi, arrivato a Palazzo Chigi un anno fa con in tasca il sogno (e, forse, l’esplicita promessa) di una rapida salita al Colle. Eppure, così non è stato: l’asse giallo-verde è tornato in auge con il no di Salvini e Conte al trasloco dell’attuale Primo Ministro al Quirinale, che ha indotto il segretario del PD Enrico Letta, grande sponsor di Draghi, ad abbandonare il suo piano. Eppure, a pensarci bene, il match potrebbe non essere ancora definitivamente chiuso. Le mire quirinalizie di Draghi, infatti, sarebbero state demolite da qualsiasi profilo in grado di garantire il completamento del settennato previsto dalla Costituzione per il Presidente della Repubblica; invece, con l’inaugurazione del Mattarella-Bis, piano B attuato in nome della stabilità dell’esperienza del Governo Draghi, la prospettiva cambia: Mattarella ha 80 anni suonati e non si può escludere che, come il predecessore Napolitano, non deciderà di porre fine al suo secondo mandato con ampio anticipo. A quel punto, Mario Draghi tornerebbe a coltivare concretamente la sua manifesta brama.

L’altro sconfitto è, sicuramente, Silvio Berlusconi. La cosiddetta “operazione scoiattolo” non è riuscita e l’animale è dovuto tornare nella sua tana con la coda tra le gambe. C’è da dire, però, che la riabilitazione politica e mediatica offertagli dall’ufficializzazione della sua candidatura da parte delle forze politiche del centro-destra (non raccolta per mancanza di numeri), così come la mancata elezione di tutti i suoi competitor, siano fattori che, se non hanno rafforzato la sua immagine pubblica, di certo non l’hanno indebolita.

A uscire spaccato da queste elezioni è il centro-destra. Giorgia Meloni, che sente di avere politicamente il vento in poppa, è uscita allo scoperto con un attacco senza precedenti ai suoi partner di coalizione (in particolare, a Matteo Salvini), a cui ha imputato di avere tradito gli accordi votando per la rielezione di Mattarella. Poco dopo le 11:30 di Sabato 29 Gennaio, la leader di FDI pubblica un tweet [1] estremamente eloquente: “Salvini propone di andare tutti a pregare Mattarella di fare un altro mandato da Presidente della Repubblica. Non voglio crederci”. Il giorno successivo dichiara in una diretta Facebook [2] di voler essere la protagonista della rifondazione del centro-destra, palesando l’ambizione di mettere all’angolo il leader del Carroccio. Nel frattempo, Salvini rilancia un progetto politico [3] congegnato negli scorsi mesi: l’unione dei partiti di centro-destra che appoggiano il Governo Draghi in una federazione. Insomma, un’alleanza strutturale tra Lega e Forza Italia che, fisiologicamente, porterebbe Salvini a diventarne il leader. Ma che sancirebbe, di fatto, la definitiva “normalizzazione” della Lega come forza di establishment: una spinta verso il centro che potrebbe però aprire una fertile prateria a destra per Giorgia Meloni. Uno strappo insanabile? Difficile ipotizzare una rottura a lungo termine, dal momento che, numeri alla mano, ognuno ha bisogno dell’altro: la Meloni per ambire a Chigi, Salvini per non perdere definitivamente la simpatia dell’elettorato della destra più “radicale”, spazientito ormai da mesi dalle sue condotte chiaroscurali.

La forza politica che, più di ogni altra, esce con le ossa rotte dalle elezioni presidenziali è il Movimento 5 Stelle, ormai diviso a metà dopo il furioso scontro consumatosi tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio nei giorni convulsi delle trattative. Dopo un incontro tenuto con Letta e Salvini venerdì 28, il leader dei 5 Stelle aveva quasi chiuso i giochi per portare al Quirinale Elisabetta Belloni, direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (che coordina e vigila l’attività dei servizi segreti), ma tutto è sfumato a causa dello stop di Di Maio, in asse con Renzi, Guerini e Tajani, e del successivo passo indietro dello stesso Letta. Subito dopo l’elezione di Mattarella, Di Maio ha denunciato [4] davanti a una schiera di giornalisti appositamente convocati il fallimento di «alcune leadership», chiedendo di aprire una «riflessione politica interna» al M5S e lodando il Parlamento e il Premier Draghi per avere risolto lo stallo elettorale. A stretto giro, Conte ha contrattaccato [5], dichiarando al Fatto Quotidiano che «Di Maio dovrà rendere conto di diverse condotte, molto gravi, ai nostri iscritti e alla nostra comunità». Di Maio ha ricevuto la solidarietà di vari forzisti, tra cui il Ministro Renato Brunetta, del Senatore Andrea Marcucci (ritenuto la quinta colonna di Renzi nel PD) e della stessa Maria Elena Boschi di Iv. Un risultato da vero democristiano 2.0. Insomma, profili e posizioni appaiono ormai inconciliabili e la resa dei conti sembra essere alle porte. Vedremo con quali modalità andrà in scena.

Se il buongiorno si vede dal mattino, il percorso che porterà fino alle prossime elezioni parlamentari, previste per la primavera 2023, sarà pieno di aspre battaglie per la leadership delle coalizioni nonché per il vero e proprio collocamento politico all’interno dell’establishment di due forze politiche che si pretendevano “anti-sistema”: Lega e Movimento 5 Stelle. È vero, i parlamentari hanno mantenuto il loro seggio e la stabilità del Governo sembra essere stata preservata. Eppure, basta volgere lo sguardo oltre l’orizzonte per comprendere che il detto gattopardiano “tutto cambi perché nulla cambi” sia, in questo caso, da rovesciare. Infatti, niente è cambiato, ma molto potrebbe presto cambiare.

[di Stefano Baudino]