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Petrolio in mare, il Perù non si piega alla Repsol: “pagherà per il disastro”

Nove spiagge e due riserve protette contaminate, seimila i barili di petrolio dispersi nell’oceano: questo il drammatico bilancio del disastro ambientale avvenuto al largo delle coste peruviane, la cui responsabilità è a carico del colosso petrolifero spagnolo Repsol. La multinazionale, prima, ha sminuito lo sversamento, poi, ha tentato di imputare la colpa del disastro all’eruzione del Tonga. Mentendo in entrambi i casi. Una tattica usuale per le multinazionali petrolifere, ma questa volta la Repsol si trova di fronte il Perù del nuovo presidente socialista Pedro Castillo, che sulla lotta contro gli abusi delle multinazionali ha costruito una parte sostanziale del proprio programma di governo [1], e le cose potrebbero mettersi male per la compagnia. Il governo peruviano ha infatti dapprima disposto l’interruzione di tutte le attività dell’azienda nel Paese fino a che non sarà determinata con maggior chiarezza la dinamica dell’incidente e ha poi annunciato l’intenzione di intraprendere “tutte le necessarie azioni penali, civili e amministrative contro la compagnia” al fine di ottenere giustizia.

Il disastro – definito il più grave nella storia del paese sudamericano – ha avuto luogo il 15 gennaio, durante il trasferimento di greggio dalla petroliera italiana Mare Doricum alla raffineria La Pampilla della Repsol. Giorno in cui – come ha denunciato il ministro dell’Ambiente Rubén Ramírez – le attività in mare non avevano registrato alcuna anomalia. Di conseguenza, la possibilità che a causare l’incidente sia stato lo tsunami derivante dall’esplosione del vulcano polinesiano appare, chiaramente, come una scusa. Un atteggiamento negligente da parte dell’azienda confermato poi dal tentativo di minimizzare quanto stava accadendo. La Repsol, infatti, al principio aveva comunicato la dispersione di appena 0,16 barili di petrolio in uno spazio di si e no 2,5 metri quadrati. Ciò ha inevitabilmente ritardato le operazioni di messa in sicurezza, così, ora, per ripulire i danni  ci vorrà circa un decennio. E intanto, le autorità peruviane fanno sapere [2] che è stato localizzato un secondo sversamento.

Il presidente peruviano Castillo sul luogo del disastro [fonte: www.gob.pe]
L’azienda petrolifera – come spesso avviene in questi casi – ha provato quindi ad evitare ogni obbligo di risarcimento. Nel mentre, però, la procura ha aperto un’indagine per il reato di contaminazione ambientale contro i suoi rappresentanti legali e i funzionari della raffineria. Ma anche il governo guidato dal neo-presidente Castillo ha intenzione di prendere seri provvedimenti. Forse, la multinazionale ha fatto danni nel paese sbagliato. Il leader del partito socialista Perù libero, non a caso, ha vinto le elezioni anche per l’aver acceso i riflettori su decenni di corruzione e impunità delle multinazionali spagnole in Perù, promettendo, in questo senso, un drastico cambio di rotta. Dimostrato anche dalle prime iniziative intraprese nelle scorse settimane [3] verso una rinazionalizzazione del settore estrattivo. La Repsol che, dal 2015, ha commesso ben 32 infrazioni ambientali, più di una volta, ha fornito informazioni sbagliate. Una mossa che, in questo caso, potrebbe però aggravare la sua posizione. Sono quattro le alte cariche coinvolte che erano incaricate di controllare il rischio di produzione. Nel caso in cui venissero processati, potrebbero essere condannati a pene tra i quattro e i sei anni di prigione, secondo le disposizioni dell’articolo 304 riferito ai reati di inquinamento in Perù.

[di Simone Valeri]