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Corbevax: il vaccino senza brevetto che sfida Big Pharma non trova finanziatori

In America è stato scoperto un vaccino che funziona con una tecnologia estremamente semplice e potenzialmente più sicura, perché simile a quella già utilizzata da altri vaccini, come quello per l’epatite B. Si chiama Corbevax e a brevettarlo è un team di ricercatori di Houston guidato da una ricercatrice nata in Italia, Maria Elena Bottazzi. I costi di produzione sono estremamente bassi e i risultati degli studi mostrano un’ottima copertura nei confronti di tutte le varianti del virus. Il team di ricercatori ha deciso di non brevettarlo, perché l’etica impone loro di non lucrare sulle spalle della gente in un momento di emergenza mondiale. In India hanno già cominciato a produrlo, ma per il momento in Europa e America non se ne parla: non si trova nemmeno un produttore disposto a fabbricarlo.

Maria Elena Bottazzi è una decana italo-onduregna presso il Baylor College of Medicine di Houston, Texas. Insieme al suo team ha scoperto un nuovo vaccino contro il Covid-19, estremamente sicuro perché prodotto con tecnologie convenzionali già utilizzate per altri vaccini comunemente somministrati, come quello contro l’epatite B. Questi sfruttano proteine sinteticamente prodotte in laboratorio che stimolano la risposta immunologica che combatte il virus, prevenendo l’infettività e lo sviluppo della malattia. La ricercatrice ne ha spiegato le caratteristiche a 37e2 [1], il programma radiofonico in onda su Radio Popolare. Il vaccino, spiega Bottazzi, ha dimostrato di avere alte percentuali di efficacia contro il virus originale e le varianti Beta e Delta, e presto arriveranno i risultati dei test effettuati su Omicron.

I dati sono già al vaglio dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), ma in alcuni Paesi, come l’India, questo è già stato introdotto tra la popolazione con ottimi risultati. Il costo di produzione, spiega Bottazzi, è alquanto contenuto, all’incirca due dollari per dose. “L’idea è che questo vaccino sia prodotto da centri che posseggano già il personale e le tecnologie e riescano a mantenere i prezzi bassi, perché non devono fare nuovi investimenti come costruire fabbriche o formare il personale o comprare le componenti, perché le usano già nelle loro strutture” spiega Bottazzi.

In Europa e America, tuttavia, la produzione sembra un traguardo lontano. “Stiamo cercando un partner di produzione negli Stati Uniti per poi rivolgerci a FDA ed EMA [Food and Drugs Administration e Agenzia Europea per i Medicinali, le aziende regolatrici che si occupano della protezione dei consumatori in Stati Uniti ed Europa] ma per il momento non lo stiamo trovando”. La motivazione, secondo la ricercatrice, è che in Occidente il mercato è già “saturo”. “È sempre stata la nostra domanda: perché una soluzione che è di fronte al nostro naso, che usa una tecnologia convenzionale e relativamente più semplice, non venga utilizzata. È vero, non è stato un processo rapido sviluppare l’introduzione di una proteina in paragone al vaccino mRna, però come è visto si possono avere prodotti rapidi ma molto cari che molti Paesi non sono riusciti a ricevere. Non capiamo ancora perché non ci sia la curiosità”.

L’etica alla base del lavoro di questo team di ricercatori è molto chiara ed è proprio quella che li ha portati alla decisione di non brevettare il vaccino, scelta che avrebbe permesso loro di arricchirsi. “Il nostro centro ha sempre avuto la missione di sviluppare prodotti che possano essere decolonizzati e possano essere fabbricati laddove ce n’è bisogno. Non è facile entrare nelle multinazionali e imparare come si produce un vaccino: nel nostro centro invece chiunque può entrare, studente o professore, per imparare come si fanno questi processi. Io penso sia moralmente necessario, è un paradigma che stiamo cercando di sviluppare, specialmente quando si tratta di vaccini che devono essere utilizzati dai paesi poveri, anche attraverso l’introduzione della capacità di produzione e ricerca locale“.

“Il Covid-19 e le pandemie distruggono il mondo, non solo la salute ma anche l’ambito economico” afferma la ricercatrice. “Il business model delle multinazionali non è l’ideale per gestire l’emergenza: se non riusciamo a vaccinare il resto del mondo e decolonizzare la faccenda dello sviluppo di prodotti che possono aiutare le regioni più povere, in caso di un’altra pandemia (che sicuramente verrà) avremo lo stesso problema. Viviamo tutti nello stesso mondo e in questo momento difficile dovremmo tutti aiutarci”.

[di Valeria Casolaro]