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Lo smaltimento dei rifiuti europei è ancora fondato sul traffico illegale

Per il nuovo anno la Commissione Europea ha messo a punto un piano denominato “Waste Shipment Regulation”, volto a favorire il riciclo dei rifiuti, limitare il traffico illegale di sostanze pericolose e controllare che lo smaltimento dei materiali esportati avvenga secondo legge. La nuova regolamentazione è sufficientemente forte da contrastare un traffico che vale circa 9,5 miliardi [1] di euro all’anno?

Nel 2020 i rifiuti che hanno viaggiato dall’Europa all’estero – e in particolare verso i paesi che non fanno parte dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – ha toccato il 50% del volume totale di rifiuti esportati, che tradotto significa 33 milioni di tonnellate [2]. Quantità decisamente aumentate se solo si volge lo sguardo indietro a qualche anno fa: +75% rispetto al 2004. Di queste centinaia di chilogrammi la maggior parte è stata destinata ai paesi poveri, spesso non dotati di impianti di trattamento idonei allo smaltimento in sicurezza.

Per l’organizzazione umanitaria European Environmental Bureau [3] “La regolamentazione non renderà più difficile l’esportazione e non garantirà che le risorse preziose contenute nei rifiuti rimangano all’interno della Ue”. Per quale motivo? È vero che la “Waste Shipment Regulation” prevede una migliore sorveglianza [4] e impone alle aziende di rendere conto di come vengono trattati i rifiuti, ma gli interessi economici sono ancora il motore primario e la politica europea non è in grado di offrire una valida alternativa senza per forza obbligare le imprese a dover spendere di più.

Esportare, infatti, spesso significa risparmiare nelle operazioni di gestione e smaltimento rifiuti, che si rivelano più costose rispetto alla possibile alternativa: caricare tutto su una nave e lasciare che se ne occupino altre nazioni. L’esportazione di materiali di scarto “alimenta il luogo comune secondo il quale per sbarazzarsi dei rifiuti basta mandarli ‘altrove’, ma questo ‘altrove’ è un posto reale”, dicono le associazioni ambientaliste. Solo nel 2020 la Turchia ha accolto rifiuti “europei” per un ammontare di 13,7 milioni di tonnellate. A seguire l’India con 2,9 milioni di tonnellate e Regno Unito con 1,8 milioni di tonnellate. Ci sono anche Svizzera, Norvegia, Indonesia e Pakistan, che hanno ricevuto all’incirca tra 1,6 e 1,4 milioni di tonnellate.

Secondo l’European Environmental Bureau, le imprese “hanno interesse nel ridurre i costi di smaltimento ma lo fanno esportando verso Paesi dove gli standard sono molto meno restrittivi con un conseguente danno sociale e ambientale”. Infatti, tenendo sempre il 2020 come anno di riferimento, i materiali più esportati sono stati ferro e acciaio, spediti per 17,4 milioni di tonnellate. Poi carta e cartone con 6,1 milioni e plastica per 2,4 milioni. Un traffico di rifiuti che, oltretutto, spesso avviene tramite canali illegali e in aperta violazione del diritto internazionale, come nel caso dei rifiuti urbani italiani che raggiungevano la Tunisia [5] nascosti in container. Un caso esploso nel novembre 2020 che provocò anche l’arresto del ministro dell’Ambiente tunisino.

Anche quando tutto avviene secondo le norme di legge, esportare altrove non è solo un grosso rischio, ma innanzitutto un’occasione persa per l’Europa stessa. Trasformare gli scarti in risorse e recuperare materiali permetterebbe ai Paesi di ridurre la propria dipendenza dall’estero e significherebbe inoltre ridurre gli effetti sull’ambiente causati dall’estrazione di sempre nuovi materiali.

Il fatto è che non basta adottare nuove politiche, introdurre nuove regole e aspettare che qualcuno le segua alla lettera. Alla base permane il bisogno di dare importanza a quell’educazione civica che insegna a dare valore al rifiuto, che non è per forza da intendere come tale. Da un materiale di “scarto” qualsiasi potrebbero nascere decine di altri nuovi oggetti e strumenti.

[di Gloria Ferrari]