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Intervista esclusiva al Presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra

Nicola Morra, classe 1963, è Senatore della Repubblica dal 2013, eletto per due volte in Parlamento nelle fila del Movimento 5 Stelle. Nel corso della sua prima Legislatura da parlamentare, è stato capogruppo al Senato del M5S e ha ricoperto la carica di Vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali. Nel Novembre 2018, dopo la vittoria dei pentastellati alle Politiche la formazione del Governo Conte I, è stato eletto Presidente della Commissione Antimafia. Nel Febbraio 2021 è stato espulso dal Movimento 5 Stelle per non avere votato la fiducia al nuovo Governo Draghi.

Ci confrontiamo con lui in merito allo stato di salute della criminalità organizzata nel nostro Paese, all’opportunità degli strumenti messi in campo per contrastarla e alle più importanti novità sul fronte della giustizia.

Presidente Morra, nel 2021 ben 14 comuni sono stati sciolti per mafia e il nuovo anno si è aperto con tre bombe mafiose esplose a San Severo e Foggia davanti all’ingresso di negozi e attività commerciali. Quanto il nostro Paese è ancora indietro nella lotta al potere dei clan sul territorio? 

Da questo punto di vista, in realtà, il 2020 e il 2021 hanno fatto registrare una regressione in merito allo scioglimento di enti locali comunali: nel 2018 i decreti di scioglimento erano stati 23; nel 2019, invece, 21. Nel 2020, anno in cui è scoppiata la pandemia, siamo addirittura scesi a 11, per poi attestarci a 14 nel 2021.

Il sottoscritto, insieme ad altri, riflette da tempo sull’opportunità di modificare la legge sullo scioglimento, perché se un comune, nell’arco di vent’anni, viene sciolto più volte, evidentemente la finalità della norma non è stata raggiunta e il comune non è stato effettivamente rimesso in bonis. Ai sensi dell’art. 143 TUEL, attualmente possiamo sciogliere per infiltrazioni mafiose enti locali comunali e aziende sanitarie. Però, soprattutto dopo la riforma del titolo V della Costituzione, che ha trasferito all’ente territoriale regionale le competenze sulla sanità, non si è considerato che l’istituto dello scioglimento potrebbe anche investire le stesse Regioni. Tra l’altro, se pensiamo alle indagini che hanno pesantemente coinvolto Consiglieri ed Assessori regionali negli ultimi anni, da questo punto di vista la politica ha in più occasioni dato un pessimo esempio di sé. Inoltre, dovremmo prendere in considerazione tante altre Amministrazioni che gestiscono la spesa pubblica sul territorio in maniera tale da destare l’attenzione degli appetiti mafiosi.

Lo Stato è indietro nella battaglia contro i clan? Si è indietro nella misura in cui si vuole raggiungere, fermare e impedire il crimine mafioso; ma se, al contrario, con il crimine mafioso si decide di flirtare, allora la questione è diversa.

La Dia, l’Anac e la Guardia di Finanza hanno lanciato l’allarme: il rischio che le mafie possano mettere le mani sui soldi del Recovery è molto alto. Quali strategie e strumenti occorrerebbe a suo parere adottare per evitare lo scenario peggiore?

 Basterebbe ricordarsi della lezione di Falcone e, prima ancora, di Chinnici. Le mafie inseguono il potere. Nella società contemporanea, esso è rappresentato dalla sua dimensione economico-finanziaria. Di conseguenza, dovremmo incrementare lo spettro d’analisi in chiave economico-patrimoniale. Lo facciamo? No. Il Procuratore Nazionale Antimafia Cafiero De Raho, nell’audizione che ha tenuto lo scorso Luglio davanti alla Commissione Giustizia della Camera, ha lamentato il fatto che i database dell’Agenzia delle Entrate, dell’INPS, della Camera di Commercio e della Procura Nazionale Antimafia non siano in grado di dialogare la tra loro, chiedendo a gran voce che le informazioni che sono nella disponibilità delle massime amministrazioni pubbliche, capaci di monitorare flussi economici e finanziari, diventino patrimonio condiviso attraverso un’operazione tecnologica e informatica. E’ stato fatto qualcosa? No.

Di recente, tra l’altro, con il Decreto emanato a fine Ottobre e convertito a fine Dicembre relativo all’attuazione del Pnrr e alla “prevenzione delle infiltrazioni mafiose”, si è indebolito il sistema delle interdittive antimafia che, come ha dimostrato un’inchiesta del Sole 24 Ore, nel periodo precedente aveva prodotto un incremento di tali provvedimenti pari al 121 per cento, con un contenzioso che solo raramente vedeva soccombere la Pubblica Amministrazione. Il risultato? Con le nuove norme abbiamo depotenziato le interdittive attraverso l’introduzione dei meccanismi della “agevolazione occasionale” e del “contraddittorio preventivo”. Come rilevano tanti specialisti, per spendere il più efficacemente possibile in termini di ripresa dell’economia questi soldi che arriveranno dall’Europa, si è di fatto indebolito un marchingegno che, seppure a macchia di leopardo (perché aveva comunque il vulnus di dipendere troppo dalla sensibilità delle singole Prefetture), stava funzionando. 

Il ‘fine pena mai’ per i mafiosi è stato, di fatto, smantellato dalle sentenze della CEDU e della Corte Costituzionale. In Commissione Giustizia è attualmente in discussione la riforma dell’art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario e il Parlamento è vincolato dalla Corte ad esprimersi entro Maggio. Che prospettive si aprono, a questo punto?

Ritengo che dovremmo aprire una riflessione sistematica sul carcere e sui regimi di detenzione carceraria. Infatti, fino a quando non capiremo che le organizzazioni criminali di stampo mafioso risultano essere eserciti di poteri nemici dello Stato repubblicano e democratico, noi non avremo gli strumenti di consapevolezza necessari per affrontare una seria riflessione sul 41-bis e sull’ergastolo ostativo. Bisogna sapere che la pericolosità sociale di alcuni crimini rappresenta un motivo prudenziale tale da consentire l’impedimento reale, effettivo e concreto di ogni forma di comunicazione del soggetto con l’interno e con l’esterno del carcere (ovviamente, ad esclusione di quelle previste dall’ordinamento stesso). Io contesto che si dica che il 41-bis sia un “carcere duro”: nel momento in cui il messaggio che passa è questo, si alimenta il mito che esso si ponga automaticamente in contrasto con i diritti umani. Non è così: è una forma di detenzione per cui deve essere impedita la pericolosità sociale del soggetto. A rafforzare il potere delle organizzazioni criminali mafiose è proprio la capacità di relazione, che avviene attraverso la trasmissione di informazioni. Chi sta dentro è stato sottratto al reticolato dell’organizzazione e deve essere mantenuto avulso dalla trama connettiva-comunicativa del sodalizio mafioso. Puntualizzo che, in ogni caso, è imprescindibile che nessun detenuto sia mai privato dei diritti umani fondamentali.

La nuova riforma della giustizia targata Cartabia ha ricevuto un unanime coro di critiche da parte dei più importanti magistrati antimafia. Le condivide?

Sì, le condivido in toto. Ormai, le mafie agiscono ben poco attraverso l’intimidazione, ma al contrario attraverso la corruzione, che è uno degli aspetti che costituiscono il fondamento di tanti reati contro la Pubblica Amministrazione. Questi reati, come anche quelli ambientali, non sono stati sottratti al giogo dell’improcedibilità delineato dalla riforma.

La Commissione Antimafia da lei presieduta si è distinta per avere audito i familiari dell’infiltrato Luigi Ilardo e del Maresciallo Lombardo, che hanno denunciato i punti di non ritorno nella ricostruzione delle morti dei propri cari, inserendoli nell’ampio calderone di quella ‘zona grigia’ che sembra aver caratterizzato una lunga serie di delitti di mafia nei periodi più caldi della nostra storia recente. A suo parere, i prossimi anni potrebbero partorire delle verità processuali inedite e significative su questo fronte?

Non credo. Anche perché l’esercizio dell’azione penale, per come è previsto nella riforma Cartabia, sarà vincolato a recepire le informazioni che annualmente il Parlamento darà agli Uffici Giudiziari e, in particolare, agli Uffici di Procura. Il Parlamento dovrà infatti indicare ai magistrati i reati da perseguire con maggiore intensità.

Occorre riformare nel giusto modo il Consiglio Superiore della Magistratura, che ha dimostrato attraverso lo “Scandalo Palamara et alii”, dove gli “alii” sono rimasti ignoti, che a capo degli Uffici Giudiziari ci andavano magistrati cari alle correnti della Magistratura che, come palesato dalle intercettazioni che hanno disvelato la frequentazione tra membri togati, membri laici e Parlamentari, flirtavano con la partitocrazia.

Se non si avvia una seria riforma della magistratura, ho paura che si rinnovi un cliché già noto per cui, ad esempio, l’80% delle vittime di mafia continua a non avere giustizia, in particolare riguardo alle responsabilità dei mandanti di tali delitti. Questa è una Repubblica che, fin dal ’47 con il tragico episodio di Portella della Ginestra, che ne ha segnato l’incipit, si fonda sulle stragi, senza che però vi sia stata sentenza che abbia posto fine al dibattito. Vero è che la verità processuale non coincide con quella storica: il mio rinvio non può che essere al famoso articolo di Pierpaolo Pasolini dal titolo “Io so”, uscito il 14 Novembre del ’74 sul Corriere della Sera.

L’universo dell’attivismo antimafia, specie dopo la nascita del ‘governissimo’ presieduto da Draghi e la sentenza di Appello sulla “Trattativa Stato-mafia”, appare politicamente ancora più disorientato e spaccato di prima. Potrebbe essere questo lo scenario più funzionale alla nascita di una nuova forza politica che si proponga di abbracciarne le istanze?

Il Movimento 5 Stelle era nato, così come altre forze politiche quali l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro e Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia, con la finalità di allontanare gli interessi economico-finanziari dal campo della ricerca della verità, sostenendo che la politica si potesse fare col denaro necessario e sufficiente a veicolare idee e valori e non, al contrario, posizioni di rendita dei singoli partiti e parlamentari. Ciò non è avvenuto. Io rilevo una formidabile domanda di giustizia e verità da parte della società italiana; contestualmente, rilevo una formidabile capacità di utilizzare armi di distrazione di massa per allontanare dai veri temi del dibattito democratico la coscienza civile del Paese.

Ci avviciniamo alla data fatidica del 24 Gennaio: sebbene sia assolutamente legittimo da un punto di vista giuridico, è a suo parere moralmente accettabile che si parli serenamente della possibile elezione a nuovo Presidente della Repubblica di un condannato per frode fiscale che ha finanziato Cosa Nostra?

Assolutamente no, ma non voglio limitarmi a questa risposta. Vorrei anche ricordare il famoso intervento del 2003 alla Camera dei Deputati di Luciano Violante, che rappresentava una importante forza politica di opposizione a Berlusconi in Parlamento, il quale sosteneva che si era già trovato un sostanziale accordo per salvaguardare gli interessi privati del soggetto in questione. Finché non avremo una severa disciplina di legge sul conflitto di interessi noi saremo esposti a pericoli di commistione tra interesse particolaristico e interesse universalistico, che è tra l’altro uno dei principali obiettivi della mafia: noi dovremmo difendere i beni comuni che, al contrario, stiamo assoggettando a logiche private. Uno su tutti è quello dell’acqua pubblica.

Qual è il modo migliore per celebrare Falcone e Borsellino nel 30’ anniversario della loro morte?

Per esempio, facendo seguire alle classi delle scuole del territorio le udienze più significative dei dibattimenti di mafia, al fine di far crescere nei ragazzi la consapevolezza che il crimine mafioso è un oltraggio ai diritti di democrazia.

[di Stefano Baudino]