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Il grande spettacolo dell’informazione mainstream

I mezzi di comunicazione di massa, specie quelli tipici della mondializzazione e della globalizzazione, televisione e internet, hanno assunto un ruolo di potere in una società basata sulle immagini. Giovanni Sartori ha spiegato quale sia la profonda trasformazione che i mezzi di comunicazione visivi andavano apportando all’Uomo e alla società. L’Homo videns [1], cresciuto e formato dalla televisione, si limita a guardare e perde la capacità di astrazione tipica di una società basata sulla parola, come prima dell’avvento degli schermi. Anche la politica si adegua allo schermo e alla sua forma, cambiando la propria sostanza. Una società di massa basata sulle immagini non può che portare ad un vuoto, passivo ed eterno vedere, guardare, niente più. Secondo Sartori il risultato è la regressione cognitiva e antropologica dell’essere umano.

La società dello spettacolo

«Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione». Questa è la prima tesi del celebre libro La società dello spettacolo scritto nel 1967 dal filosofo francese Guy Debord. La critica del filosofo francese era rivolta alla moderna società industriale capitalista e ai suoi metodi di produzione ma non mancavano critiche ai modelli socialisti/comunisti, anzi. Il blocco Occidentale era definito da Debord come “spettacolare diffuso” mentre quello Orientale come “spettacolare concentrato” in virtù di ciò che egli definiva “divisione mondiale dei compiti spettacolari” della società umana moderna. Il dominio di tali società su regioni sottosviluppate del mondo non è avvenuto solamente grazie all’egemonia economica in capo a loro ma anche per mezzo delle proprie immagini, arrivate ben prima che potessero essere poste le basi materiali del dominio stesso; la superficie sociale di tali regioni era già stata invasa dallo spettacolare della società portatrice dello spettacolo: «Essa definisce il programma di una classe dirigente e presiede alla sua costituzione. Nello stesso modo in cui presenta gli pseudo-beni a cui aspirare, offre ai rivoluzionari locali i falsi modelli di rivoluzione. Lo spettacolo proprio del potere burocratico che controlla alcuni paesi industriali fa precisamente parte dello spettacolo totale [..] Se lo spettacolo, visto nelle sue diverse determinazioni locali, mostra indubbiamente delle specializzazioni totalitarie della parola e dell’amministrazione sociali, queste vanno poi a fondersi, al livello del funzionamento globale del sistema, in una divisione mondiale dei compiti spettacolari».

Infatti, secondo il filosofo, la divisione nei due blocchi ai tempi della guerra fredda celava un’unità: «lo spettacolo, come la società, è nello stesso tempo unito e diviso. Come questa, esso edifica la sua unità sulla lacerazione. Ma la contraddizione, quando emerge nello spettacolo, è a sua volta contraddetta per un rovesciamento completo del suo senso; di modo che la divisione mostrata è unitaria, mentre l’unità mostrata è divisa». Per tale motivo, nella rappresentazione della separazione la società moderna poneva le proprie basi su una solida base comune: «La lotta di poteri che si sono costituiti per la gestione dello stesso sistema socio-economico che si presenta come la contraddizione ufficiale, mentre appartiene di fatto all’unità reale; e ciò su scala mondiale come all’interno di ogni singola nazione». Per tale motivo, nel 1988, all’alba della dissoluzione dell’Unione Sovietica, nei Commentari alla società dello spettacolo, Debord spiega il superamento della vecchia “divisione mondiale dei compiti spettacolari” in favore di una loro fusione nella forma comune dello “spettacolare integrato” con cui il mondo viene unificato.

Atomizzare la società

Seguendo il ragionamento di Debord se ne deduce che la moderna società dello “spettacolare integrato”, che appare come unitaria, è una realtà lacerata e separata. Di fatti, nel corso degli ultimi trent’anni la società moderna è andata man mano atomizzando gli individui disfacendo i rapporti e i legami sociali tra i medesimi dimostrando quella divisione reale prodotta dallo spettacolo che mostra invece la propria unità. Così, lo spettacolo della moderna società “integrata” che mette in scena il “confortevole” e “pacifico” pensiero unico e unificato, sottende la spaccatura violenta del sociale.

Lo spettacolo «è il cuore dell’irrealismo della società reale» e se «compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente». Che si tratti di informazione, propaganda, pubblicità o consumo di distrazioni, lo spettacolo «è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo conseguente. Forma e contenuto dello spettacolo sono entrambe l’identica giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema esistente. Lo spettacolo è anche la presenza permanente di questa giustificazione, in quanto occupazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna». In sostanza, lo spettacolo è «una visione del mondo che si è oggettivata» poiché esso «non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini».

Informazione o intrattenimento?

Lo spettacolo è divenuto immanente nella società degli schermi e delle immagini e del continuo e incessante flusso di informazioni. La televisione ha acquisito la funzione di oggetto religioso che pronuncia, senza mai interrompersi, il verbo dello spettacolo; essa è sacerdotessa del modello economico-politico-sociale dominante ripetendone i mantra e contribuendo alla (ri)produzione della realtà stessa.

Lo spettacolo del sociale deve intrattenere quotidianamente e l’informazione diviene spettacolare, non solo per il suo modo enfatico di essere presentata bensì per l’assoggettamento alle regole della produzione irreale della realtà sociale. Così abbiamo i vari programmi tv che sono “format”, ovvero “idea base” o “formula”, con cui si stabilisce la struttura portante che può essere utilizzata altrove tale e quale oppure dopo opportuni adattamenti in base al contesto dello spettacolo locale. Ma ovunque il format sia portato, forma e contenuto coincidono con le necessità e i fini della società dominante.

Barbara D’Urso è una regola

In un’intervista del 2009 [2] condotta da Vittorio Zincone, Barbara D’Urso – nota conduttrice televisiva Mediaset – ebbe a dire: «La miscela alto-basso non l’ho inventata io. E comunque sono molto attenta a tener distinti i momenti di approfondimento da quelli di cazzeggio». La conduttrice ha anche affermato: «Mi prendo in giro. Scherzo. Poi vengono anche momenti importanti, soprattutto la mattina, quando parlo dei problemi dei cittadini». La D’Urso ha proseguito dicendo: «Mi sto occupando parecchio di violenza sulle donne e di anoressia. Molte ragazze mi scrivono per ringraziarmi». Nella medesima intervista, Barbara D’Urso dice di essere stata radiata dall’Ordine dei giornalisti perché faceva “spot”. Quanti sono gli articoli della Costituzione italiana lo ignora come pure quali siano i confini dell’Iraq; d’altronde, spiegando il motivo del suo rifiuto ad una candidatura politica, nel 2004, con Forza Italia di Silvio Berlusconi, la conduttrice dice: «Io conduco, recito, canto». Eppure nelle trasmissioni della D’Urso, oltre che dei reality show e di “storie d’amore” di personaggi (pseudo)famosi, si parla di temi sociali importanti e di politica e, adesso, pure di virologia; il tutto secondo le regole dello spettacolo: stacchetti, intermezzi e qualsiasi altra tecnica utilizzata nella produzione dell’irreale col solo fine di intrattenere e concentrare il pubblico sulla costruzione costante e senza fine del modello sociale dominante. Ogni elemento della narrazione è pronto ad essere sconvolto poiché niente deve consolidarsi al fine di proseguire potenzialmente all’infinito la sceneggiatura che diviene insieme al reale: tutto scorre sul piano liscio del pensiero unico dominante senza che vi sia possibilità di fermare e approfondire il discorso, in un caleidoscopio di informazioni spettacolari che non spiegano niente ma che intrattengono e producono la realtà sociale. Con le reti sociali digitali, che moltiplicano la potenza dello spettacolo, giornalisti, opinionisti, influencer, accrescono il flusso continuo della produzione sociale tramite l’irreale spettacolare delle “storie” e dei “cinguetii” che, come la TV, altro non sono che la mediazione di un rapporto sociale tra individui nella società atomizzata moderna.

La pandemia, “la guerra contro il virus”, è divenuta oggetto di consumo di massa, una merce, un feticcio, che i mass media hanno al contempo lanciato e cavalcato in una spasmodica ripetizione giornaliera di spettacoli macabri e horror con conta dei morti e sfilate di camion dell’esercito, thriller con caccia all’untore (prima il runner, poi quello con il cane, poi i giovani etc.) e poi tanta drammaticità in stile documentario pedagogico di stampo paternalista; ovviamente, per taluni, non è potuta mancare tanta pubblicità.

Infodemia

Con la “crisi pandemica” – crisi economica, democratica e sociale – lo spettacolo si è fatto totalizzante del sociale con i mass media che hanno generato e veicolato una cascata di informazioni cui il pubblico, l’opinione pubblica, è stato sottoposto costantemente. La parola infodemia è apparsa per la prima volta nel 2003 quando David Rothkopf pubblicò un controverso scritto, When the Buzz Bites Back [3], in cui spiegava che «è un fenomeno complesso causato dall’interazione di media mainstream, media specializzati e siti internet e media “informali”, vale a dire telefoni wireless, messaggi di testo, cercapersone, fax ed e-mail, che tutti assieme trasmettono una combinazione di fatti, voci, interpretazione e propaganda». Secondo l’autore la diffusione del virus SARS (SARS-Cov1) nel 2002 palesò in maniera chiara per la prima volta questo fenomeno che è «in grado di transitare istantaneamente tra continenti». Rothkopf spiega che l’infodemia è in grado di innescare il panico globale, scatenando comportamenti irrazionali e offuscando la capacità di vedere i problemi sottostanti: questo pone sotto costante pericolo le strutture sociali, politiche ed economiche. «La SARS è la storia non di un’epidemia ma di due, e la seconda epidemia, quella che è in gran parte sfuggita ai titoli dei giornali, ha implicazioni che sono molto più grandi della malattia stessa. Questo perché non è l’epidemia virale, ma piuttosto una “epidemia di informazione” che ha trasformato la SARS, o sindrome respiratoria acuta grave, da una pasticciata crisi sanitaria regionale cinese in una debacle economica e sociale globale», è quanto scriveva Rothkopf nel 2003. Egli paragonava l’infodemia ad un ronzio sempre presente nella società odierna, che varia nel tono e nell’intensità, il quale sarebbe di utilità se costantemente monitorato col fine di renderlo un “alert” su questioni sanitarie, sociali ed economiche. Otto anni più tardi ci siamo ritrovati nell’infodemia legata al SARS-Cov2 che ha totalizzato la produzione del sociale su scala mondiale con conseguenze di enorme portata a livello sociale, politico ed economico. Del resto, come non poteva essere così quando lo “spettacolare integrato” del mondo globalizzato ha deciso che fosse ora della guerra? Nel momento in cui, forse subito, si è veicolato il messaggio dell’entrata in guerra della società la questione si è fatta chiaramente politica squalificandone il senso sanitario. E proprio come in guerra, mezzi di comunicazione di massa e reti sociali sono stati utilizzati per identificare i nemici della società, quindi dello spettacolo stesso.

[di Michele Manfrin]