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Asl Roma: il giudice reintegra l’infermiera non vaccinata con tanto di arretrati

La Asl Roma 6 deve reintegrare un’infermiera precedentemente sospesa dal lavoro non essendosi sottoposta al vaccino anti Covid: è quanto stabilito da una recente sentenza del giudice del Lavoro del tribunale di Velletri, Giulio Cruciani. Essa nello specifico stabilisce che la dipendente debba riprendere a lavorare tramite modalità che le evitino di avere contatti con il pubblico, come ad esempio lo smart working, e prevede inoltre che quest’ultima debba percepire anche gli arretrati.

Come sottolineato dal quotidiano la Repubblica, che ha riportato [1] il contenuto della sentenza, l’unica clausola imposta dal magistrato è infatti quella di garantire che vi siano «adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura». Si tratta di un’esigenza derivante dal bisogno di «tutelare la salute pubblica» che però in tal caso a quanto pare può essere soddisfatta, avendo a che fare con «una grande azienda che sicuramente avrà mediamente scoperture di organico e, comunque, assenze per malattia, aspettativa o ferie». Inoltre il giudice aggiunge che, ad esempio, un compito amministrativo da svolgere in smart working sarebbe il miglior modo «per assicurare il fine voluto dal legislatore», ossia quello di ridurre il rischio di contagiarsi.

Si tratta di un modus operandi che il legislatore ha già reso possibile per chi non può vaccinarsi, motivo per cui potrebbe palesarsi una discriminazione tra chi non vuole sottoporsi alla vaccinazione e chi è impossibilitato a farlo. «Questa discriminazione è costituzionalmente facilmente superabile dall’interpretazione perché l’interesse che è costituzionalmente prevalente è quello della salute pubblica, la quale è messa a rischio ugualmente dal soggetto non vaccinato a prescindere dal fatto che non si sia voluto vaccinare o non si sia potuto vaccinare». Tutto ciò significa, dunque, che tutti gli operatori sanitari non vaccinati possono prestare la propria opera nel caso in cui possa essere evitato il rischio per la salute pubblica e possano essere garantite adeguate condizioni di sicurezza.

Un’altra discriminazione, secondo il giudice, vi potrebbe poi essere tra gli operatori di interesse sanitario e quelli di altri settori. Essa infatti si paleserebbe nel momento in cui le prestazioni di questi ultimi espongano in sostanza loro stessi o gli altri al «medesimo rischio per la salute». A tal proposito il giudice chiama in causa l’articolo 3 [2] della Costituzione, secondo il quale «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Insomma, si tratta senza dubbio di una sentenza rilevante e destinata a far discutere, in quanto sostanzialmente reinterpreta le norme che impongono l’obbligo vaccinale per i sanitari. La sua eventuale importanza, tra l’altro, era già stata confermata dal fatto che la vicenda era ampiamente circolata sui media quando a fine novembre il giudice aveva disposto la momentanea riammissione al lavoro dell’infermiera con un decreto [3] cautelare, nel quale si ordinava alla Asl «l’immediata ricollocazione della ricorrente e l’erogazione dello stipendio» in virtù della rilevanza costituzionale dei diritti compromessi. Una decisione dunque confermata adesso tramite tale sentenza, che potrebbe suscitare nuovi interventi normativi.

Ad ogni modo, però, bisogna ricordare che il caso non può dirsi chiuso definitivamente: la Asl Roma 6 ha reso noto che farà ricorso contro la sentenza, chiedendo la sospensione all’Ordine professionale degli infermieri. L’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato, ha infatti affermato che «l’Asl ha applicato la legge e peraltro nel frattempo le misure sono state estese, non solo al personale sanitario, ma anche a quello amministrativo del servizio sanitario».

[di Raffaele De Luca]