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Inside media, il lato oscuro dell’informazione

Un giornalista investigativo rischia fino a 175 anni da scontare in un carcere di massima sicurezza per aver divulgato informazioni che svelano le malefatte del governo. Succede in Arabia Saudita? In Cina? In Russia? No, succede nel paese che ci hanno insegnato a considerare la più grande democrazia del pianeta: gli Stati Uniti d’America. Venerdì 10 dicembre l’Alta Corte di Londra ha stabilito che Julian Assange potrà essere estradato [1] negli Usa, ribaltando quanto aveva stabilito il tribunale in primo grado. Giova ripetere per comprendere l’enormità dell’accusa: 175 anni di carcere, più o meno due vite intere, per la sola colpa di aver divulgato informazioni riservate riguardanti l’operato del governo americano.

Per il potere a stelle e strisce, evidentemente, il fondatore di Wilileaks non è solo un uomo, è un simbolo: la persecuzione nei suoi confronti è tanto spietata perché colpirlo serve a mandare un monito ad ogni potenziale nuovo Assange. Il messaggio è chiaro: nessuno si azzardi, mai più, a rivelare la verità sulle torture di Guantanamo, sui massacri di civili in Iraq e Afghanistan, sui contenuti dei trattati internazionali o sugli abusi della diplomazia americana. Per perseguire il loro scopo gli Usa lo inseguono da 11 anni con ogni mezzo, inclusa la progettazione del suo omicidio [2], che è provato che la Cia mise in campo mentre Assange si trovava protetto nell’ambasciata dell’Ecuador.

Di fronte ad un tale attacco alla libertà di stampa dovrebbero essere i media i primi a indignarsi, fare campagne di stampa, organizzare proteste ed incontri. Ebbene, niente di tutto questo. Quegli stessi giornali che versano litri di inchiostro per informarci della persecuzione degli oppositori in Russia o dello svolgimento di qualche sgangherato corteo di protesta a Cuba, si ritrovano improvvisamente senza voce di fronte alla persecuzione di un giornalista da parte degli Usa e dei suoi alleati occidentali. All’indomani della sentenza sulle prime pagine di Corriere della Sera e Repubblica, i due principali quotidiani italiani, non c’era nemmeno una riga sul caso. Lo stesso su quelle dei grandi quotidiani americani (non una parola sul Washington Post né sul New York Times) e di quelli europei, incluso il britannico The Guardian, considerato emblema stesso del giornalismo con la G maiuscola, quello che assolve stoicamente la funzione di controllore della democrazia.

Credo non ci sia molto da aggiungere. La situazione del giornalismo è nera. Come è successo che quello che era ritenuto un tempo il cane da guardia del potere ne sia diventato il cane da compagnia? Nelle pagine di questo quinto numero del nostro Monthly Report andremo a svelare anche questo.

[di Andrea Legni – direttore de L’Indipendente]

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