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Abdel è morto ventiseienne a Roma, legato a un letto d’ospedale

Wissem Ben Abdel Latif aveva appena 26 anni al momento della morte, avvenuta nell’ospedale San Camillo di Roma il 28 novembre. Dalle prime ricostruzioni sembra che si trovasse legato ad un lettino di contenimento da tre giorni e che a causare la morte sia stato un arresto circolatorio, ma le cartelle sanitarie risultano incomplete. Secondo l’associazione LasciateCIEntrare, la vicenda è da inserire nel più ampio contesto delle morti in seguito a detenzione nei CPR.

Abdel Latif [1] si trovava nel reparto psichiatrico dell’ospedale San Camillo di Roma: vi era stato trasferito dal CPR (Centro di Permanenza e Rimpatrio) di Ponte Galeria, dove era detenuto per trovarsi sul suolo italiano senza documenti. La sequenza temporale dei fatti non è ancora del tutto chiara, ma sembra che Abdel si trovasse legato ad un lettino contenitivo da tre giorni, quando è stato trovato morto. La cartella sanitaria non lo specifica. Alessandro Capriccioli [2], consigliere regionale a Roma, ha comunicato che dalla documentazione riguardante Abdel Latif si evince che fosse soggetto a “problemi psichiatrici” e per tale motivo sottoposto a “contenzione” quotidianamente, fino al sopraggiungere del decesso per “arresto circolatorio”. La pratica della contenzione non è stata monitorata, come dovrebbe essere norma.

Il tunisino era stato trasferito nel reparto psichiatrico dopo una segnalazione del CPR, che ne ha denunciato possibili disturbi psichiatrici. I CPR sono centri di detenzione a tutti gli effetti. I reati per i quali i soggetti vi sono rinchiusi, tuttavia, sono di mera natura amministrativa: vi si viene rinchiusi per il semplice motivo di trovarsi sul territorio italiano senza documenti. Fondamentalmente, un contesto di privazione della libertà personale che avviene in assenza di reato. Le strutture sono delle vere e proprie gabbie, con sbarre di ferro che impediscono l’uscita dei soggetti. Diverse associazioni e ONG hanno denunciato, negli anni, la natura degradante di questi centri, nei quali i diritti umani delle persone vengono calpestati e nemmeno l’assistenza medica è garantita. Solo poche settimane fa a Torino il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha imposto la chiusura del settore Ospedaletto del CPR di Torino [3], in quanto “l’alloggiamento configuri un trattamento inumano e degradante e che tale valutazione possa essere condivisa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu), qualora adita, esponendo così il Paese alle relative conseguenze”.

Proprio in questa sezione si è tolto la vita Moussa Balde [4], nella primavera di quest’anno. Moussa era un migrante guineano di appena 23 anni che il 9 maggio era stato selvaggiamente picchiato da tre italiani mentre si trovava di fronte a un supermercato di Ventimiglia a chiedere l’elemosina.

Dopo l’aggressione, appurato che si trattava di un migrante senza documenti, era stato rinchiuso nel CPR di Torino, dove poche settimane dopo è stato trovato impiccato all’interno della sua cella. Il suo avvocato, Gianluca Vitale, ha affermato che Moussa soffriva di gravi disturbi psichici come conseguenza dell’aggressione.

Soffermarsi a una lettura medicalizzata della disperazione autorizza l’archiviazione di gravi fatti di cronaca in quanto “disgrazie”. Questi fatti urlano invece a gran voce l’inefficienza, se non la pericolosità, di un sistema fondamentalmente fallace. Come scrive l’associazione Melting Pot [4], questi fatti impongono “il dovere di interrogarci su quante violenze una persona può subire nel ventunesimo secolo, a partire dal totale abbandono da parte delle istituzioni italiane“. Per Vitale quanto accaduto a Moussa è “responsabilità dello Stato italiano“.

Come fa notare Maurizio Veglio [9], avvocato specializzato nel campo dei diritti dell’immigrazione, a vent’anni dall’istituzione di questi centri non se ne conoscono i costi o l’efficacia. L’unico dato a disposizione è che, ad oggi, il 50% dei rimpatri non avviene. Le persone si trovano quindi imprigionate in un limbo dal quale non possono uscire, separate dal mondo esterno senza aver nemmeno commesso un reato.

A Torino, dal suicidio di Balde, sono 57 [10] i tentativi registrati di togliersi la vita da parte dei migranti. Tuttavia ancora nessun cambiamento è avvenuto a livello amministrativo e molti di questi episodi sono superficialmente rubricati come “simulazioni”. La Procura di Torino ha recentemente inserito nel registro degli indagati per la vicenda Balde cinque poliziotti della questura, cui è contestato il reato di concorso. Forse suggerendo che le istituzioni avrebbero potuto aiutare ad evitare la tragedia.

[di Valeria Casolaro]