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Le isole di plastica cambiano l’ecologia marina: la fauna ha iniziato a colonizzarle

Le isole di rifiuti in plastica, che da anni ormai galleggiano sulla superficie degli oceani, hanno delle conseguenze tutt’altro che scontate. Oltre a degradarsi in frammenti inquinanti via via più piccoli, questi ammassi di polimeri industriali stanno letteralmente cambiando l’ecologia del mare. Numerose specie hanno infatti iniziato a colonizzarli, tant’è che alcuni scienziati [1] hanno già coniato il termine relativo alla nuova comunità biologica emergente: ‘neopelagica’. Le isole di plastica, difatti, rappresentano un’opportunità permanente per le specie costiere di invertebrati di transitare nei bacini oceanici, nonché un habitat a lungo termine per far sì che colonizzino l’oceano aperto. Le implicazioni ecologiche sono tante.

La prima conseguenza più diretta è rappresentata da un’alterazione della distribuzione biogeografica. A lungo, per la dispersione delle specie costiere, i vasti bacini oceanici sono stati considerati delle efficaci barriere fisiche. Ma ora, a cambiare le carte in tavola c’è l’appurata esistenza di habitat galleggianti in grado di sostentare le popolazioni in viaggio. La dispersione di una specie da un capo all’altro del mondo, anche fosse a più fasi, ora non è più poi così impossibile. Di conseguenza, la plastica galleggiante potrebbe rappresentare anche un vettore per il movimento di specie potenzialmente invasive. Prima o poi, è infatti inevitabile che le specie veicolate dalle isole di rifiuti raggiungano coste diverse da quelle da cui sono partite. In questo modo, entreranno in diretta competizione con le popolazione native stravolgendo i processi ecologici del luogo. Non a caso, le invasioni biologiche sono ad oggi considerate una delle principali cause di perdita di biodiversità autoctona a livello globale. Tuttavia, la piena comprensione del processo, così come la composizione effettiva di queste nuove comunità marine, ha bisogno di ulteriori studi.

Oggi, le isole costituite da rifiuti galleggianti sono almeno sei. La più estesa è la Great Pacific Garbage Patch [2], un agglomerato di scarti umani che si stima abbia un’estensione di 1.6 milioni di km². Nel complesso, si ritiene che siano almeno 5 miliardi di miliardi i frammenti plastici sparsi qua e là negli oceani. Non dovrebbe quindi sorprendere che un inquinamento tanto diffuso provochi delle profonde trasformazioni. Gli organismi però, per quanto possibile, si adattano e l’hanno fatto anche in questo caso. In particolare, la colonizzazione di queste isole in plastica è stata documentata [3] per la prima volta nel 2017, dopo lo tsunami che ha colpito il Giappone nel 2011. Centinaia di specie marine costiere giapponesi sono state infatti rinvenute vive su ammassi di detriti nell’Oceano Pacifico settentrionale. Avevano viaggiato per 6.000 chilometri e molte si erano accresciute e riprodotte per anni in mare aperto. Il fenomeno, di per sé, non è però del tutto nuovo: in ecologia, il cosiddetto ‘rafting [4]‘, è noto da tempo. Non è infatti la prima volta che l’una o l’altra specie sfrutti delle strutture galleggianti per colonizzare nuovi ambienti. Tuttavia, queste zattere – prima del 1950, ovvero prima che i rifiuti plastici iniziassero ad accumularsi in mare – erano esclusivamente naturali, come tronchi d’albero o ammassi di detriti biologici. Con un’importante differenza degna di nota: le zattere naturali sono rapidamente biodegradabili mentre le isole di plastica si degraderebbero in tempi talmente lunghi da poterle considerare permanenti. Il che significa che queste ultime aumentano in estensione nel tempo e viaggiano per distanze significative. In sostanza, mentre prima il ‘rafting naturale’ poteva considerarsi un fenomeno effimero, ora, quello ‘artificiale’ appare tutt’altro che trascurabile.

[di Simone Valeri]