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Livorno, l’incendio nella raffineria Eni è solo la punta dell’iceberg

Ieri, poco dopo le 14, è divampato un incendio nella raffineria Eni di Stagno, tra i comuni di Livorno e Collesalvetti. Una colonna di fumo nero si è levata poco dopo un’esplosione, le cui cause sono in via di accertamento. Non si registrano feriti e l’allarme che invitava a “non uscire di casa” è rientrato. Nel giro di un paio d’ore, infatti, le fiamme sono state domate e – come ha rassicurato la Protezione Civile di Livorno – «la situazione è tornata alla normalità». Se si può definire tale. L’incendio avvenuto nell’impianto “forno hot oil” in manutenzione, difatti, è solo la punta dell’iceberg, l’epilogo nefasto di una gestione negligente del territorio. Quest’ultima non ne è la causa, ma fa da sfondo ad un quadro critico in cui la salute pubblica è all’ultimo posto. Le fiamme sono state sì domate, ma quel che hanno liberato avrà delle conseguenze, esattamente come l’inquinamento cronico dell’intero settore in cui ricade la raffineria del Cane a sei zampe.

L’area in questione non è una zona industriale qualunque: inclusa nei Siti di Interesse Nazionale (SIN), fa infatti parte delle 42 aree più inquinate d’Italia. In questo caso specifico, a causa della concomitante attività di più industrie, sia nelle acque che nel suolo, le concentrazioni di idrocarburi quali il benzene, cancerogeno certo per l’uomo, sono oltre ogni limite di legge. Lo aveva già denunciato, non molto tempo fa, l’unità investigativa di Greenpeace [1] dopo aver visionato diversi documenti relativi al sito. Da questi sono emersi picchi di 2.350 microgrammi/litro (μg/l) di benzene nelle acque sotterranee, quando il limite di legge è di 1 μg/l. Mentre le ultime analisi del 2019 hanno segnalato superamenti fino a 162 μg/l. Ma che l’area fosse particolarmente inquinata non è affatto cosa nuova. Nel 2003, l’allora Ministero dell’Ambiente ne aveva evidenziato il perimetro al cui interno, oltre alla raffineria Eni, sono tutt’ora comprese anche la centrale termoelettrica Enel, lo Stabilimento di produzione lubrificanti e le aree dismesse denominate ex Italoil, ex Deposito Interno AgipPetroli e Stabilimento GPL. E chi più ne ha più ne metta. Decenni delle più disparate attività industriali concentrate in un singolo sito avrebbero mai potuto avere impatti trascurabili? Questa è forse la domanda che bisognava porsi a monte. Ma ora, alla luce dell’errore commesso, è necessario chiedersi: perché non si sta rimediando?

La zona industriale Livorno-Collesalvetti, tra le più critiche in Europa, attende una bonifica da anni. L’iter è partito nel 2003, quasi 20 anni fa, ma nulla di concreto è stato fatto. La multinazionale petrolifera – la cui pertinenza sul sito è pari al 95% – continua a tamponare l’inquinamento con misure di contenimento previste dalla legge ma tutt’altro che risolutive. E anziché individuare le cause effettive della contaminazione diffusa e avviare una bonifica degna di questo nome, la Regione ha perfino approvato un accordo che autorizza un nuovo impianto potenzialmente in grado di compromettere ulteriormente l’area. Eni e Regione Toscana, nel 2019, hanno infatti siglato un accordo per la realizzazione di un nuovo impianto destinato a bruciare ogni anno fino a 200 mila tonnellate di plastica non riciclabile e combustibile solido secondario. Nel mentre, da almeno due decenni, lo studio Sentieri [2] del Ministero della Salute evidenzia come a Livorno si registrino «eccessi della mortalità per tutti i tumori in entrambi i generi». Se attorno alla raffineria Eni si facesse lo stesso studio realizzato per i quartieri accanto all’Ilva – ha infatti ribadito la Onlus Medicina Democratica – «si potrebbero scoprire delle problematiche che farebbero diventare Livorno la nuova Taranto». L’importante però è che l’incendio sia stato spento. Quel che ha liberato, in fondo, è solo una goccia in un vaso già fin troppo colmo. La normalità è stata ripristinata: d’altronde, pecunia non olet.

[di Simone Valeri]