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Il ruolo della tecnologia nella transizione ecologica (risorsa o problema?)

Ormai sono passati mesi da che si è iniziato a parlare delle molteplici possibilità garantite all’Italia dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Dalle prime bozze alla situazione attuale, Governo e giornali non hanno mai mancato di reclamizzarne le evoluzioni strategiche delle tanto attese riforme, evoluzioni che però non hanno mai stravolto lo spirito di base del progetto, con l’establishment italiano che ha garantito a più riprese che buona parte dei finanziamenti verranno incanalati nella digitalizzazione e nella transizione ecologica.

Complessivamente questi propositi sono abbracciati con enfasi ed entusiasmo, tuttavia una fascia minoritaria di soggetti solleva delle perplessità, chiedendosi se tali promesse possano o meno essere accompagnate da una sincera buona fede. Uno dei quesiti rimasti aperti è se la corsa allo sviluppo informatico sia compatibile con un futuro ambientalmente sano o se la propaganda inscenata sia solamente l’ennesima iterazione di “greenwashing” a cui il mondo della finanza ci sta sottoponendo. Un’incognita legittima, ma a cui è molto difficile, se non impossibile, fornire una risposta puntuale.

Perché la digitalizzazione dovrebbe fare danni?

Nel gennaio del 2021 è esplosa la mania dei non-fungible token (NFT), criptovalute collezionabili che sono state al centro di un moto speculativo di tale vigore da far notizia in tutto il mondo. Mentre i più si chiedevano cosa potesse giustificare un simile successo, una piccola fetta di autori e critici condivideva perplessità sulla sostenibilità ambientale di un simile Mercato. Basandosi perlopiù sul blockchain, il commercio degli NFT fa infatti affidamento su di una gestione decentralizzata che è notoriamente energivora, dettaglio che certamente getta delle ombre sul fatto che un simile consumo di risorse possa essere eticamente giustificabile, nel grande schema delle cose. D’altro canto, è facile obiettare che la transizione digitale di un’opera artistica sia comunque infinitamente meno dispendiosa delle dinamiche commerciali che affliggono un corrispettivo fisico, se si prendono in considerazione gli impatti della produzione e del trasporto.

I NFT possono essere opere d’arte, figurine digitali, illustrazioni e molto altro.

I dubbi etici sviluppatosi attorno agli NFT ci offrono uno spaccato su un dilemma che può essere esteso a ogni singolo ramo della sfera tecnologica. Prendiamo un esempio vicino all’esperienza di tutti: le e-mail. Inviare una e-mail danneggia l’ambiente molto meno di quanto non farebbe l’invio di una missiva cartacea e immette nell’ambiente solamente 4 grammi [1] di CO2 equivalente (CO2e), ovvero poco meno del 2% [2] della sua omologa materiale. Su un piano puramente teorico, la convenienza è evidente, tuttavia basta allegare un file o un’immagine ed ecco che il vantaggio si ridimensiona immediatamente. A questo va quindi sommato il fatto che l’immediatezza e la gratuità della posta digitale ci spinge ad abusare del mezzo inviando contenuti che altrimenti ometteremmo, fomentando un giro di consumo che si ingigantisce ogni anno che passa. Per avere un metro di paragone, si consideri che tra spam, pubblicità, newsletter e comunicazioni varie, un normale impiegato riceve ogni giorno mediamente 121 e-mail [3] e la tendenza è in costante crescita.

Il The Shift Project francese ha stimato [4] nel 2019 che internet e i sistemi a esso associati siano responsabili del 3,7% delle emissioni di gas serra globali e che spurghino nell’aria più o meno il quantitativo di CO2 generato dall’intero settore aeronautico. Detto questo, la stessa think tank ha anche stimato che le cifre stiano lievitando vertiginosamente e che nel 2025 la quantità di carbonio generata dalla filiera internettiana sarà più che raddoppiata, parzialmente anche per colpa dell’immenso traffico derivante dalla consultazione dei video. Per la cronaca, la sola pornografia occupa il 16% [5] dell’intero flusso dati con un totale di emissioni annuo che è comparabile a quello del Belgio.

Tuttavia i calcoli sono inconsistenti

A questo punto, il fulcro della questione è determinare se le emissioni causate dal digitale siano inferiori, uguali o addirittura maggiori di quelle che si genererebbero con un consumo di altra natura. Sfortunatamente, per sua stessa natura, il calcolo non potrà mai essere univoco e costante. A complicare questo genere di riflessioni giunge infatti una diffusa inabilità nel trovare un metro comune con cui definire gli estremi da prendere in considerazione.

Calcolare quante emissioni siano generate dalla stampa di un libro è relativamente semplice, ma come bisogna comportarsi con un e-book? Si calcola solamente il dispendio energetico del file o si prendono in considerazione anche i costi ambientali della produzione del tablet su cui lo si leggerà? Sembra una banalità, tuttavia proprio su questo genere di banalità si poggia un’intera galassia di scontri accademici e aziendali, una galassia in cui i ricercatori fanno metaforicamente a botte per imporre il proprio punto di vista.

C’è dunque la questione di quanto un inquinamento iniziale possa essere giustificato da un eventuale risparmio futuro. Spesso non si tratta di cose da poco: l’addestramento del generatore di testi GPT-3 di OpenAI, azienda fondata da Elon Musk, ha causato una mole di emissioni comparabile a quella che potrebbe essere generata da un ipotetico viaggio automobilistico dalla Terra alla Luna, andata e ritorno [6], mentre Emma Strubell arriva a stimare [7] che i meccanismi di machine learning possano immettere nell’ambiente quantità di carbonio comparabile a quella generata da cinque autovetture durante il loro intero ciclo vita.

Il digitale “buono”

L’assegnazione dei Premi Nobel ha preso piede perché Alfred Nobel, inventore della dinamite, non voleva che la storia lo ricordasse per aver creato «esplosivi militari» adoperati per causare morte e dolore. Per mondare il suo retaggio, l’uomo si è assicurato di imporre nelle sue ultime volontà che il 94% dei beni da lui accumulati venissero usati per premiare i traguardi intellettuali e accademici dell’umanità. Eppure, a ben vendere, la dinamite non si sarebbe meritata una pubblicità tanto opprimente, di per sé è pura tecnica. Nobel l’aveva progettata perché semplificasse la vita agli scavatori, ogni eventuale abuso è figlio di un “fraintendimento” della sua funzione originaria.

Anche la digitalizzazione è, in senso assoluto, priva di un valore morale intrinseco: non è né buona, né cattiva. Immettere nell’atmosfera una quantità di emissioni comparabile a una piccola flotta automobilistica potrebbe anche essere conveniente, se quello che ne viene fuori è in grado di garantire un risultato che vada a compensare e valorizzare quel primissimo sacrificio. Le intelligenze artificiali, per esempio, hanno già permesso al Regno Unito di notare gli scarichi abusivi [8] di alcune aziende poco rette e le potenzialità [9] di questo genere di strumento sono pressoché illimitate: monitoraggio del clima e dell’ambiente, minimizzazione degli sprechi, ottimizzazione della gestione di traffico ed energia, perfezionamento della filiera alimentare. Non si tratta quindi di definire se la digitalizzazione possa o meno assisterci in maniera ecosostenibile, quanto il decifrare se l’approccio tech del prossimo futuro possa essere adeguato allo stile di vita sostenibile che rincorriamo. Le prospettive non sembrano rosee.

Il “come” fa la differenza

Le macchine possono sicuramente ottimizzare quei processi utili ad attenuare le criticità del nostro stile di vita, tuttavia molte di queste criticità sono state fomentate più dall’ignavia che dall’incapacità di percepirne l’importanza. Non si può certo dire che l’emergenza climatica che sta preoccupando i Governi di tutto il mondo si sia abbattuta su di noi in maniera imprevista e ineluttabile; quelle stesse istituzioni che ora corrono ai ripari hanno lamentato per svariati decenni la necessità di imporre politiche ecologiche più sostenibili, ma per decenni si sono anche assicurate di non fare nulla di significativo, stretti in uno stallo alla messicana condizionato da fobie di natura finanziaria. Il problema non è certamente l’assenza di consapevolezza, quanto l’assenza della volontà di attuare dei cambiamenti.

Il riflesso di questa tendenza passiva viene percepito ancora oggi, con il risultato che quando si discute dei grandi investimenti sulle IA si finisce con il far riferimento al mondo militare, alla finanza e agli interessi commerciali delle Big Tech. Tutto il resto sembra posto a margine di interessi che valicano l’urgenza formalmente denunciata. Nell’implausibile caso si riesca a sovvertire le aspettative e si ribaltassero le priorità in campo, rimane comunque il fatto che la tecnologia non rappresenti una soluzione magicamente capace di risolvere ogni male. Lo abbiamo visto con Immuni, app di tracciamento pandemico nata con i migliori auspici che si è immediatamente scontrata con un coordinamento zoppicante e con una scarsezza di risorse umane. Un panorama omologo lo si potrebbe immaginare in relazione al mercato del lavoro, all’amministrazione pubblica o anche alla sanità: che si usi pure un software per ottimizzare la dimensione gestionale delle realtà manageriali, ma non sarà un programma a risolvere le insidie della gig economy, dell’incomunicabilità tra regioni o della gestione poco attenta del Nomenclatore Tariffario.

Guidare il futuro e l’approccio alla rete

Perché la digitalizzazione possa servire a migliorare le nostre condizioni di vita e rispettare l’ambiente è necessario che si stabilisca una strategia equilibrata, ovvero che non si indulga in capricci barocchi e distruttivi per il puro fine dell’autoappagamento. Si sta dunque facendo strada il concetto di “parsimonia digitale”, ovvero di una dimensione auspicabile in cui il consumo sia globalmente sottoposto a un’analisi critica e consapevole dei mezzi che abbiamo a disposizione. Ora come ora, inutile negarlo, siamo molto lontani da un simile traguardo. Un esempio: un SMS genera 0,014g [10] di CO2e mentre un messaggio puramente testuale inviato tramite WhatsApp inquina più di 200 volte tanto, eppure per comodità, immediatezza e dinamica sociale finiamo ugualmente con il favorire le app di messaggistica ad alternative meno deleterie. Di sprechi simili è costellato l’intero settore tech, settore che, avendo perlopiù mire imprenditoriali, fa il possibile per convincere le persone che il consumo bulimico di un prodotto sia propedeutico al loro stesso benessere.

Se vogliamo che il PNRR faccia effettivamente la differenza, bisogna esigere che i miglioramenti ventilati dal Governo italiano non si affidino esclusivamente a un pensiero magico che assume fattezze digitali, ma che i cambiamenti siano proposti in chiave più strutturata e radicale. Non basta finanziare e liberalizzare la ricerca tech, si deve formalmente prendere atto del fatto che gli equilibri di potere del mondo globalizzato sono ormai variati, così come sono variati anche i mezzi a disposizione della popolazione e le disparità tra ceti e nazioni. Una digitalizzazione priva di guida finirà solamente con l’enfatizzare le ingiustizie correnti, favorendo i Paesi ricchi a discapito di quelli che, pur non godendosi i vantaggi delle intelligenze artificiali, dovranno comunque subire le conseguenze ambientali legate alle crescenti emissioni. Qualcosa in tal merito si sta facendo attraverso il Digital Markets Act e il Digital Service Act, cornici normative con cui l’UE vorrebbe regolamentare il “far west” della Rete e che irritano terribilmente gli Stati Uniti, i quali ospitano buona parte delle Big Tech che verrebbero colpite. A questo punto non resta che capire se l’Europa sia pronta a imporsi o se finirà ad assecondare le impostazioni di matrice americana.

[di Walter Ferri]