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Veramente la cannabis è una medicina? Tutto quello che c’è da sapere

Sì, la Cannabis è una medicina e lo è da migliaia di anni. Solo ora, però, man mano che la ricerca progredisce e le terapie si dimostrano sempre più efficaci, molti Paesi stanno modificando la legislazione per garantire ai cittadini un diritto fondamentale, quello alla salute. Ecco tutto quello che c’è da sapere sulla medicina più antica del Ventunesimo secolo.

Cosa si intende per cannabis terapeutica?

Quando si parla di Cannabis terapeutica o Cannabis Medicinale (CM) si fa riferimento all’utilizzo in medicina della pianta, presentata in diverse modalità, dalle infiorescenze agli oli, passando per colliri, compresse, creme, supposte ed estratti. La CM, per essere considerata tale, deve avere principi attivi standardizzati e rispettare tutti i passaggi previsti per l’approvazione dei farmaci, dalla coltivazione alla preparazione, così da fornire al paziente un prodotto non contaminato e con principi attivi ripetibili.

In questo contesto, la CM viene definita un fitocomplesso, ossia una pianta con un ricco insieme di componenti chimici naturali dalle proprietà terapeutiche e, dunque, non legata a un unico principio attivo. In particolare, a renderla un’importante risorsa medica sono gli oltre 100 cannabinoidi individuati al suo interno e i terpeni, più di 200 e suoi componenti principali noti come antisettici, antinfiammatori e ansiolitici. A questi si aggiungono i flavonoidi e altre sostanze.

Come la cannabis interagisce col nostro corpo

Nonostante l’elevato numero di principi attivi, sono due le componenti terapeutiche protagoniste: il cannabidiolo (CBD) e il Delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), spesso stigmatizzato per i suoi effetti psicotropi, ma che, se assunto in dosi controllate, ha numerosi effetti positivi sull’organismo. Entrambi interagiscono con il sistema endocannabinoide: una rete di comunicazione tra le cellule del corpo umano che collega gli organi e le diverse zone contribuendo a gran parte delle sue funzioni vitali e, soprattutto, a mantenere l’equilibrio interno, detto omeostasi.

Nel sistema sono coinvolti tre attori: endocannabinoidi (cannabinoidi prodotti dall’organismo), recettori ed enzimi. I primi sono molecole che, al mutare delle condizioni, attivano i recettori che a loro volta innescano una reazione nelle cellule per mantenere l’equilibrio del corpo; gli enzimi, infine, hanno il compito di dissolvere ed eliminare le molecole non più necessarie al bilanciamento dell’omeostasi in modo che non si accumulino creando ulteriori danni o complicazioni.

Interagendo con il sistema endocannabinoide, CBD e THC possono contribuire al suo corretto funzionamento in caso di interferenze esterne o squilibri aiutando a moderare la sensazione di dolore, infiammazioni, ansia e stress o contribuendo alla sensazione di appetito o piacere. Attualmente sia i cannabinoidi che i farmaci oppioidi, come la morfina, vengono utilizzati nel trattamento del dolore, ma i secondi sono soggetti al rischio di abuso, una situazione che, secondo i dati del National Institute on Drug Abuse [1] statunitense, ha coinvolto tra il 21% e il 29% dei pazienti e nel 2019 ha portato alla morte per overdose di circa 50.000 persone. Il numero è stato superato tra giugno 2019 e maggio 2020, quando gli USA hanno registrato un nuovo record di overdose [2]: 81.000 vittime in 12 mesi. La Cannabis Medicinale si pone quindi come una valida alternativa, con risvolti positivi sia dal punto di vista terapeutico che sociale.

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I principi attivi contenuti nella cannabis e i loro benefici

Le patologie trattabili con la cannabis

Le molte proprietà della Cannabis si rivelano utili per numerose condizioni e patologie. Le sue proprietà analgesiche, per esempio, sono importantissime per chi soffre di dolore cronico, fibromialgia, endometriosi o dolori mestruali; le proprietà anticonvulsivanti aiutano invece i pazienti affetti da epilessia e Parkinson; quelle ansiolitiche supportano in caso di insonnia, ansia o stress. Non solo, grazie alla capacità del THC di alleviare nausea e vomito, la CM viene utilizzata da decenni anche per controllare gli effetti della chemioterapia o delle terapie contro l’HIV. E questi sono solo alcuni esempi.

Agli utilizzi già consolidati si aggiungono quelli in fase di ricerca. Tra il 2020 e il 2021, infatti, gli studi sulla CM hanno raggiunto un picco, portando a nuove teorie e scoperte che potrebbero rivoluzionare il mondo della medicina. È il caso dello studio [4] che ha analizzato il potenziale effetto del CBD contro il cancro grazie all’azione sui geni chiave, ma anche di quello [5] dedicato alla capacità del THC di disgregare gli agglomerati di Beta amiloide, tra le principali cause dell’Alzheimer. La ricerca, insomma, si sta ramificando e sta fiorendo in importantissime scoperte, ma tutto parte dalle sue antiche radici.

La storia della cannabis come medicina

Per quanto fondamentali per lo sviluppo di nuove terapie, infatti, le ricerche stanno in realtà cercando di dare una spiegazione teorica e scientifica a ciò che nella pratica si conosce da migliaia di anni.

Uno dei primi riferimenti alla Cannabis come medicinale, infatti, compare in un testo di oltre 5.000 anni fa che descrive le proprietà di più di 300 piante: lo Shen-nung Pen-ts’ao Ching (2737 a.C.), un volume che ha posto le basi per l’erboristeria cinese e dove la cannabis viene suggerita per oltre cento disturbi, dalla malaria ai reumatismi. Altrettanto antica è la testimonianza riportata nei Veda indiani, i testi in sanscrito risalenti al 2000 a.C. nei quali la cannabis è citata come una delle piante per liberarsi della sofferenza. Ma non c’è solo l’Asia. Anche Dioscoride Pedanio, medico e botanico alla corte di Nerone, la consigliava per le sue proprietà e come lui anche Plinio il Vecchio, che nel suo Naturalis Historia suggeriva diverse preparazioni a base di Cannabis.

Dopo secoli di utilizzo, però, papa Innocenzo VIII, con la bolla papale del 1484 (Summis desiderantes affectibus), ne proibì il consumo e l’utilizzo ai fedeli. L’ordine rientrava in una politica ben più ampia mirata a eliminare ogni tipo di eresia e stregoneria e contribuì con il tempo a creare un pregiudizio che nell’Europa cattolica del Medioevo trovò un terreno fertile nel quale crescere e prosperare.

Bisogna aspettare il 1839 per un cambiamento, avvenuto grazie al medico irlandese William B. O’Shaughnessy, che, durante un viaggio in India, riscopre la cannabis come medicina e decide di dedicarle un intero volume (On the preparations of the Indian hemp, or gunjah) nel quale approfondisce preparazioni e trattamenti di successo riscontrati per casi di convulsioni, spasmi e reumatismi. O’Shaughnessy risveglia così l’interesse della comunità scientifica dell’epoca e porta non solo alla prima conferenza dedicata organizzata dalla Ohio State Medical Society nel 1860, ma anche a una nuova ondata di ricerche che proseguirà per tutto il secolo successivo e che raggiungerà il massimo sviluppo tra gli anni ‘60 e ‘70.

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La cannabis terapeutica oggi

Da allora la cannabis terapeutica ha fatto molta strada. La ricerca sempre più approfondita e il bisogno di controllare i sintomi del crescente numero di pazienti affetti da tumore e AIDS ha portato non solo alla formulazione di nuovi farmaci, ma anche a una letteratura scientifica più completa che ha spinto molti Paesi ad autorizzare il suo utilizzo. Ad aprire le danze è stata la California nel 1996, diventata il primo Stato al mondo ad adottare un sistema per disciplinare l’uso terapeutico; nove anni dopo è stato il turno del Canada, seguito da Paesi Bassi, Israele e Germania, solo per citarne alcuni.

E poi c’è stato il 2020. Nell’anno dell’emergenza sanitaria, infatti, la Commissione delle Nazioni Unite (ONU) ha compiuto un passo storico eliminando la cannabis dalla “Tabella IV della Convenzione Unica degli stupefacenti” e riconoscendone in via ufficiale gli effetti terapeutici; fino a quel momento era stata trattata al pari di oppiacei mortali come cocaina ed eroina. La ricerca, oltre che principale motore della declassificazione, sarà anche la sua prima beneficiaria, perché la decisione dell’ONU porterà alla nascita di nuovi studi in tutto il mondo.

Cannabis terapeutica in Italia

In Italia, la normativa sulla cannabis terapeutica è cambiata nel 2006, quando un’ordinanza del Ministero della Salute [7] ha concesso non solo l’importazione di medicinali a base di THC (autorizzata dal 1998 per fini di ricerca), ma ha anche consentito ai medici di prescrivere preparazioni, allestite da farmacisti, utilizzando il Dronabinol o altre sostanze attive vegetali a base di cannabis terapeutica controllata.

A questo si sono aggiunti successivamente due decreti che hanno aggiornato le tabelle contenenti l’indicazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope, uno nel 2007 [8] e uno nel 2013 [9]. Il secondo, in particolare, ha allargato la prescrizione anche alla pianta e ai suoi derivati, consentendo così ai neurologi di prescrivere il Sativex®, un prodotto a base di CBD e THC per ridurre gli spasmi della sclerosi multipla. In generale, per la CM, la prescrizione medica non è ripetibile e la somministrazione avviene per via orale o inalatoria.

Un ulteriore passo avanti è stato fatto nel 2014, quando grazie a un accordo firmato tra il Ministero della Salute e quello della Difesa è stata autorizzata la produzione di preparazioni galeniche all’interno dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze, riducendo quindi non solo la dipendenza dall’importazione, ma anche i costi. La produzione toscana del Cannabis FM-2 è stata avviata nel 2016 e nel 2018 è stata seguita dalla varietà Cannabis FM-1, che prevede una percentuale di THC più elevata.

Le problematiche italiane

Nonostante il supporto teorico delle normative e l’avvio della produzione nazionale, però, la situazione a livello italiano non è delle più rosee. Da una parte, infatti, c’è la limitazione dell’utilizzo, autorizzato, nella maggior parte dei casi, solo di fronte al fallimento delle terapie tradizionali e limitato a specifiche patologie o condizioni. Dall’altra c’è il problema legato alla produzione, che attualmente non riesce a soddisfare il fabbisogno nazionale e costringe all’importazione senza però che sia garantita la continuità terapeutica ai pazienti. Una problematica, questa, che ha sollevato il dibattito sull’autoproduzione a fini terapeutici sia dentro che fuori dal Parlamento, dove a segnare la cronaca è stata la vicenda, conclusasi con l’assoluzione, di Walter De Benedetto [10], paziente affetto da artrite reumatoide imputato poiché coltivava cannabis a scopo terapeutico nella propria casa.

A queste problematiche si aggiunge la scarsa formazione dei medici, che anche in caso di necessità spesso non prescrivono la terapia non conoscendola approfonditamente, e la scarsa informazione dei pazienti, che molte volte non sanno di avere a disposizione questa opportunità. Ultimo, ma non meno importante, l’applicazione della normativa a livello regionale.

Ogni Regione, infatti, ha la possibilità di stabilire le proprie linee guida che possono spaziare dalla scelta delle patologie coinvolte fino alle modalità di prescrizione, passando per l’aspetto economico. In alcune, infatti, i medicinali sono a carico del Sistema Sanitario Regionale [11]è il caso di Emilia-Romagna, Lombardia e Puglia, per esempio — in altre, invece, è a carico dei pazienti, che si trovano così ad affrontare spese che superano i 300€ e, nei casi più complessi, arrivano anche a 1000€ mensili. La situazione avrebbe potuto cambiare nel 2017, quando è stato proposto un decreto fiscale secondo il quale la cannabis terapeutica sarebbe stata, a livello nazionale, a carico del sistema sanitario italiano, ma il decreto non è mai entrato in vigore creando così una situazione frammentata e di profonda disuguaglianza in termini di diritti alle cure. Ora, grazie alla mobilitazione dei cittadini [12] e di alcuni membri del Parlamento [13], la situazione potrebbe cambiare. Lo scopriremo nel 2022.

[di Martina Sgorlon]