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Non si ferma la strage di giornalisti in Messico

Fredy López Arévalo e Alfredo Cardoso sono morti lo stesso giorno. Uccisi per il lavoro che svolgevano: entrambi erano infatti giornalisti in Messico [1], ancora oggi uno dei paesi più pericolosi al mondo per chi si occupa di informazione. I due reporter sono stati presi d’assalto nelle loro case, a distanza di meno di 24 ore l’uno dell’altro. Con la morte di Arèvalo e Cardoso il bilancio delle vittime di quest’anno per i reporter sale a nove, superando già gli otto morti registrati nel 2020.

Fredy López Arévalo è stato colpito alla testa mentre si trovava nella propria abitazione, situata nella città di San Cristóbal de las Casas. I suoi reportage provenivano principalmente dalle zone dello stato meridionale del Chiapas, e recentemente aveva scritto molto sulla politica centroamericana e la rivolta zapatista per testate giornalistiche come Reuters, il Los Angeles Times e Notimex. Il suo lavoro sulla politica locale era meticoloso e costante.

Alfredo Cardoso è morto invece ad Acapulco, dopo essere stato allontanato dalla sua residenza da uomini armati e a volto coperto, che non hanno risparmiato minacce neppure nei confronti della famiglia. Il suo corpo è stato ritrovato il giorno successivo, trivellato di colpi. [2] Inutili gli sforzi compiuti dai medici per tentare di salvargli la vita. Cardoso, prima di ricoprire il suo ultimo incarico da direttore del sito di notizie online Revista Dos Costas, era un fotoreporter che negli ultimi tempi aveva raccontato la situazione di Acapulco, una città che ha subito una radicale trasformazione negli ultimi dieci anni: da meta turistica a covo di violenza generata dai cartelli della droga.

Come è già accaduto in passato, anche questa volta nessun sospettato è stato arrestato. Spesso gli omicidi commessi nei confronti dei giornalisti messicani finiscono nel dimenticatoio e rimangono impuniti. Le motivazioni sono diverse: indagini superficiali e inadeguate, indifferenza da parte della politica e frequenti collusioni tra cartelli della droga. Elementi che contribuiscono a confermare ancora una volta il Messico come il paese con più omicidi compiuti ai danni dei giornalisti. [3]

“Questi attacchi sono alimentati dall’impunità, che è quasi totale nei crimini contro la stampa. Il governo non è stato disposto a fare alcun passo significativo per rafforzare lo stato di giustizia o proteggere i giornalisti”, ribadiscono le associazioni.

Facendo una panoramica più ampia, dal 1999 ad oggi nel mondo, almeno 1.400 giornalisti sono stati uccisi proprio per aver portato a termine il proprio lavoro. Nell’86% dei casi, nessun colpevole ha pagato per l’omicidio.

Reporters sans frontières (RSF) include da anni il Messico, insieme alla Siria e all’Afghanistan [4] (in cui però va avanti una guerra devastante da anni) nella classifica dei paesi più pericolosi al mondo per i media.

La violenza nel paese è spesso frutto della collusione tra funzionari e criminalità organizzata, pratica che paralizza il sistema giudiziario in tutti gli ambiti. I giornalisti che si occupano di raccontarne l’evoluzione, di addentrarsi nella politica interna e locale, in crimini irrisolti e malfunzionamenti amministrativi vengono minacciati, intimoriti e nel peggiore dei casi uccisi a sangue freddo. Altri vengono rapiti, e di loro poi non si sa più niente. Non si sa se siano morti o se siano fuggiti all’estero. Se siano stati costretti a cambiare identità, ad esempio, o vivere perennemente nascosti. “Andrés Manuel López Obrador, presidente del Messico dal dicembre 2018, non ha ancora attuato le riforme necessarie per frenare questa violenza e impunità”, riferisce RSF.

[di Gloria Ferrari]