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Perché i soldi che Stati e filantropi promettono agli indigeni sono una presa in giro

Tra le varie, seppur poche, decisioni adottate fin ora alla CoP26, la conferenza ONU sul clima, ce n’è una che viene sbandierata con giubilo da diversi media mainstream: i popoli indigeni saranno finanziati per poter proteggere le foreste [1]. Alcuni governi e organizzazioni private hanno infatti annunciato lo stanziamento di 1,7 miliardi di dollari in favore delle comunità indigene del Sud America per la protezione delle foreste dal loro disboscamento. I paesi che hanno annunciato lo stanziamento di questa somma di denaro da destinare alle comunità indigene sono Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Norvegia e Paesi Bassi mentre le organizzazioni private sono Bezos Earth Fund, Ford Foundation, Bloomberg Philanthropies, Arcadia, Wyss Foundation e Rainforest Trust. Oltre alla cifra irrisoria, al momento solo annunciata, il serio pericolo è che si tratti dell’ennesima pratica di marketing.

Da prima escluse dal consesso mondiale presieduto dai potenti della Terra, le comunità indigene presenti per protestare [2] sono poi state accolte e ascoltate da coloro che, sostanzialmente, hanno tirato fuori di tasca gli spiccioli rimasti. Presenti alla medesima conferenza c’erano anche banche, fondi d’investimento e multinazionali; per loro hanno pensato ad un fondo da 100 miliardi [3] di dollari per aiutare i paesi in via di sviluppo nella riconversione “green” e perfezionato accordi legati al Gfanz [4] (Glasgow Financial Alliance for Net Zero), coalizione di attori finanziari lanciata lo scorso aprile dall’inviato dell’Onu su clima e finanza Mark Carney e che riunisce il 40% dei capitali finanziari globali.

Eppure i popoli indigeni proteggono già oggi l’80% delle biodiversità mondiale ricevendo però l’1% di ciò che viene solitamente speso nei programmi legati alla salvaguardia ecologica. E di queste cifre irrisorie, le comunità indigene ne ricevono solamente una parte mentre il resto si perde tra tutte le organizzazioni di intermediarie. Tuntiak Katan Jua, vice coordinatore del COICA, coordinatore delle organizzazioni indigene del bacino amazzonico, nel merito della questione ha detto [5]: « Sappiamo che molti di questi fondi sono destinati a meccanismi tradizionali, che hanno mostrato grandi limiti per raggiungere i nostri territori e sostenere le comunità nelle loro iniziative. In larga misura, gli intermediari sono i primi beneficiari dei fondi per il clima e i loro alti costi riducono la percentuale che viene effettivamente investita in comunità e territori».

Le soluzioni proposte a Glasgow sono le solite e non sono soluzioni, anzi. Escludendo a priori dal ragionamento le decisioni finanziare, mera speculazione e gioco contabile, tra le proposte continuano ad esserci quelle delle compensazioni di carbonio, oggi chiamate Nature-Based Solutions [6] (NBS) e che Greenpeace ha definito greenwashing [7], che nella migliore delle ipotesi è un gioco a somma zero. Nella realtà, i serbatoi di CO2 previsti equiparano le foreste naturali con le piantagioni di specie arboree per produzione di energia da biomassa. Queste ultime, non solo non permettono di avere biomassa per l’energia neutra rispetto alle emissioni di carbonio ma trasforma anche le foreste naturali ricche di biodiversità in fattorie arboree, che sono vicine ad essere deserti di biodiversità. Gli Stati Uniti sono tra i maggiori produttori al mondo di biomassa per la produzione di pellet [8] mentre il Regno Unito è il maggior consumatore al mondo di energia derivante da pellet. Inoltre, si pensi che l’UE considera il pellet – prodotto con “fattorie arboree” che cancellano la biodiversità – come energia rinnovabile, risultando essere il 60% del proprio “portafoglio di energie rinnovabili”. Inoltre, le proiezioni mondiali vedono da qui al 2027 una crescente domanda e offerta di pellet.

Per quanto riguarda invece le solite proposte conservazioniste, queste rischiano di aggravare la situazione politica, sociale ed economica delle comunità locali. Oltre ad essere in un periodo storico con un picco di omicidi [9] – specie in Sud America – di ecologisti attivi molto spesso nelle comunità indigene, l’istituzione di parchi e foreste protette ha quasi sempre significato l’espulsione e la rimozione dei popoli indigeni proprio dalle terre oggetto della politica conservazionista, dando così luogo ad ogni genere di violenza.

Insomma, l’annuncio fatto alla Cop26 sul finanziamento alle comunità indigene sembra proprio l’ennesimo spot pubblicitario dei “padroni del vapore” che cercano di smacchiare il proprio abito su cui ancora sono segnate le profonde tracce lasciate da più di 500 anni di violento colonialismo, depauperamento delle risorse, distruzione degli ecosistemi e affossamento delle economie locali e che adesso tenta di sfruttare l’immagine di questi popoli per la nuova trovata di marketing in ambito socio-ecologico che potremmo definire “indigenous washing”.

[di Michele Manfrin]