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Italia, i grandi colossi alimentari importano tonnellate di pomodoro dallo Xinjiang

Tubetti o barattoli di preparato pronti da consumare. Assumono questa forma, alla fine, le decine di migliaia di tonnellate di concentrato di pomodoro che ogni mese approdano in Italia dalla lontana regione cinese dello Xinjiang. Grossi fusti destinati ad alcune delle più importanti aziende conserviere che alimentano, indirettamente, la repressione del governo cinese sulla minoranza etnica degli uiguri. Il consumatore non lo sa, e non può saperlo, dal momento che, una volta terminata la lavorazione in Italia, degli uiguri non rimane più traccia. I dati di cui siamo a conoscenza derivano da inchieste molto lunghe e approfondite, come quella di IrpiMedia che, in collaborazione con CBC Canada [1], ha ripercorso il viaggio del concentrato di pomodoro cinese: dallo sfruttamento ai colossi dell’industria italiana.

Gli uiguri appartengono ad una minoranza etnica di religione musulmana che abita nella regione dello Xinjiang. Secondo i dati delle Nazioni Unite, circa un milione di loro vivrebbe internato in “campi di rieducazione”, costretto a subire un indottrinamento forzato. Motivo per cui, qualche mese fa, alcune aziende d’abbigliamento, come Oviesse, hanno deciso di non importare più cotone proveniente dalla regione, nonostante ne sia una delle zone maggiormente produttrici al mondo. Lo stesso trattamento, però, non è stato riservato al pomodoro: le aziende italiane continuano a rendersi complici di quello che è stato definito un “Genocidio culturale”. Anzi. Negli anni ’90 fu proprio la spinta di alcuni industriali italiani [2] ad avviare la filiera di produzione di pomodoro nello Xinjiang.

Ora, invece, l’iter è più o meno questo. Il pomodoro viene coltivato per migliaia di ettari. Una volta maturo, finisce nelle mani di una trentina di fabbriche della provincia cinese, che ne terminano la lavorazione. Poi, tutto è pronto per la spedizione. Il prodotto infatti non viene consumato dal mercato interno, ma circola per tutto il pianeta. Una delle sue mete preferite è il porto di Salerno.

Alcune aziende campane acquistano triplo concentrato proveniente dallo Xinjiang per aggiungerci acqua e sale e trasformarlo in doppio concentrato, prodotto in Italia. Al momento della riesportazione questo “nuovo” prodotto sarà etichettato come completamente made in Italy. In questo deteniamo un primato, aggiudicandoci la medaglia come primo mercato al mondo di destinazione del concentrato cinese: più di 97 mila tonnellate nel 2020 [1], cioè circa l’11% delle esportazioni totali che partono dalla Cina. I numeri sono aumentati nel 2021, superando il raddoppio: ci sono navi che approdano nei porti di Salerno e Napoli praticamente ogni giorno.

In questo senso, è il gruppo Petti, impresa rinomata fra quelle delle conserve, a detenere il primato. Nei primi sei mesi del 2021 ha importato circa il 57% di tutto il concentrato di pomodoro cinese sbarcato in Italia. I dirigenti hanno confermato a IrpiMedia di importare concentrato di pomodoro dallo Xinjiang, ma “la società Petti è dotata di un codice etico ai principi del quale si sforza costantemente di adeguare i rapporti commerciali con i partner esteri per il rispetto dei diritti umani”. A loro dire, il concentrato di pomodoro dello Xinjiang sarebbe impiegato solo in prodotti destinati ai mercati africani. Per quelli italiani, invece, Petti userebbe pomodoro 100% toscano.

Così come Petti, tutti gli operatori del settore sostengono che il concentrato proveniente dalla Cina non viene utilizzato per il mercato italiano: è riservato a prodotti poi venduti all’estero. Su questo, però, nessuno può fornire prove certe.

Il processo di trasformazione, in sé, non è illegale. Ma se il concentrato cinese venisse veramente utilizzato in prodotti venduti in Italia, dovrebbe essere segnalato in modo chiaro ed evidente. Tuttavia risulta molto difficile sapere con certezza dove finisce, a meno che non siano le industrie stesse a dichiararlo. E questo non accade praticamente mai. L’Anicav (Associazione Nazionale Industriali Conserve Alimentari Vegetali) ribadisce che i prodotti contenenti pomodoro cinese finiscono principalmente in paesi extra Ue come Africa e Medio Oriente. Molta merce, infatti, entra in Italia con una dicitura di “temporanea importazione”. Pronta, cioè, a ripartire una volta terminata la lavorazione. Rimane però il fatto che i Paesi che ricevono più prodotti aventi a che fare con pomodoro lavorato in Italia sono Germania, Francia e Regno Unito e i loro grandi supermercati.

Una domanda sorge spontanea: perché compriamo dalla Cina pur essendo noi i primi produttori europei di pomodoro? La stessa spontaneità con cui recepiamo la risposta: il pomodoro concentrato cinese ha un prezzo molto più basso del nostro. Così come i costi di produzione, più che dimezzati “grazie” alla misera paga che spetta ai braccianti, spesso minori. Spesso uiguri.

[di Gloria Ferrari]