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L’Italia prova a lanciarsi nella ricerca sulle intelligenze artificiali

Stando alle indiscrezioni pubblicate sul sito Formiche.net [1], il Comitato interministeriale per la Transizione digitale sarebbe riuscito ad approvare la bozza finale che andrà a dettare la strategia italiana sulle Intelligenze Artificiali (IA). Un traguardo su cui si sta lavorando da almeno tre anni e che bisognava comunque risolvere in occasione del PNRR, ma che è anche stato accompagnato da dichiarazioni tanto barocche e vaghe da rendere difficoltoso il giudicare l’effettiva qualità del progetto.

Quello che ne emerge è un’Italia che pur avendo poco spazio di manovra si definisce trionfalmente come «una vibrante comunità di ricerca nell’IA», una definizione che si accattiva qualche brontolio da coloro che ogni giorno vivono le criticità proprie al mondo della ricerca nostrana: pochi mezzi, stipendi da fame e una strategia accademica non molto lungimirante. Tutte criticità che, a onor del vero, il Governo starebbe in qualche modo per affrontare, tuttavia i difetti sistemici sono tanto profondi e antichi che sarà difficile cambiare radicalmente rotta.

Se nei Paesi Membri si investe mediamente il 2,38% del Pil nella ricerca, in Italia siamo fermi al solo 1,45% con il risultato che, paradossalmente, ci siamo trovati a finanziare gli scienziati UE più dei nostri. Gli ottimi ricercatori del Bel Paese, poco sorprendentemente, si lanciano quindi nella controversa pratica della “fuga dei cervelli”, trovando poi lavoro all’estero. Come biasimarli: la paga oraria offerta dai tedeschi si aggira a €48, mentre da noi ci si arena a una media di €15, per di più con gender-gap di portate notevoli. Su 10 ricercatori, solo due sono donne.

Per appianare la situazione, il Governo vorrebbe impiegare 600 milioni di euro per finanziare i dottorati di ricerca nazionali, 600 milioni per sostenere i giovani ricercatori, 5 milioni all’anno per il programma “Rita Levi Montalcini” del Miur, 1,5 miliardi con cui foraggiare gli Istituti tecnici superiori, 430 milioni per creare nuove carriere nella Pubblica amministrazione e 3,2 miliardi di euro per realizzare corsi STEM, ovvero corsi che abbiano “ricadute applicative” nel campo scientifico-informatico.

Bastano queste risorse per sostenere le narrazioni del Governo Draghi che vogliono l’Italia come avanguardia dell’IA nell’Europa? Si e no, a seconda del come si interpretano le parole dell’establishment. La sfera pubblica ha – e probabilmente continuerà ad avere – un ruolo marginale nel settore delle Intelligenze Artificiali, tuttavia quello privato è discretamente attivo, soprattutto se coinvolgiamo nell’equazione anche il ramo della robotica. Non deve quindi sorprendere che 13,38 miliardi della Transizione 4.0 saranno destinati a sostenere le imprese che svilupperanno le dinamiche di machine learning e i sistemi predittivi.

Bisogna dunque capire se l’Italia abbia intenzione di gettonare sullo Stato, rendere felici le aziende private o se voglia fare fronte comune con l’UE “prestando” i propri laureati d’eccellenza per lavorare a una causa condivisa, una causa utile a contrastare le strapotenze digitali di Cina e USA, ma anche ad attingere a un mercato stimato nella sola Italia sui €300 milioni.

[di Walter Ferri]