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Pensioni, la riforma Draghi non è altro che il ritorno alla Fornero (ma non si può dire)

L’ennesima riforma del sistema pensionistico è approdata al consiglio dei ministri, pronta ad essere approvata in tempi record e sostanzialmente senza opposizione, come ormai di costume da quando Mario Draghi siede sulla poltrona di presidente del Consiglio. Ieri l’ex capo della BCE si è guadagnato anche l’apertura di credito dei sindacati confederali. Cgil, Cisl e Uil si sono fatti bastare una riforma diluita su più anni e la promessa di “riparlarne” il prossimo anno per rinunciare ad ogni forma di mobilitazione di protesta del mondo del lavoro. Ma la linea tracciata da Mario Draghi è molto chiara e incontrovertibile: in massimo quattro anni si tornerà alla legge Fornero, in pensione non prima dei 67 anni. Piaccia o meno, si preferisce avere lavoratori sempre più vecchi, limitando l’entrata dei giovani, pur di far quadrare i conti e rispettare l’austerità di bilancio.

Rimarrà una proroga per l’uscita anticipata per i lavori gravosi e per le donne, ma anche su questo l’esecutivo preannuncia una stretta. L’antifona è che “i tempi di vacche grasse sono finiti” e i soldi stanziati saranno a scalare: 600 milioni per il 2022, 450 nel 2023, 510 nel 2024. Le quote spariranno via via, ma al di là delle ipotesi che erano circolate su come abbandonarle (una progressione con quota 102, 103 e 104 nel triennio), per adesso dall’ultima cabina di regia è emerso che l’unico elemento certo è quota 102 per il 2022 (64 anni d’età per la pensione), poi da gennaio 2023 si riaprirà il tavolo coi sindacati.

Nel complesso certamente cambiano le cifre degli assegni, di un importo che però è variabile a seconda del livello di contributi e della relativa parte retributiva. Per molti l’importo minimo potrebbe anche variare di poco ma, come detto all’inizio, a preoccupare è la tendenza. La spesa per pensioni, con questa impostazione, è destinata a scendere sempre di più fino al 2050, arrivando dal 17% del Pil a una cifra tra il 13 e il 14%. E se un bilancio non si valuta solo per quanto è generoso, va però considerato che anche il reddito dei pensionati è importante ai fini dell’economia e il 36% di essi lo riceve sotto i mille euro. Calmierare la previdenza è sterile se non si incrementa l’occupazione, specie giovanile. Sostanzialmente di quelli che questi assegni di fatto dovranno pagarli. Sembra che ciò non preoccupi le sentinelle di Bruxelles, e neppure la stessa Elsa Fornero, la quale, ricordiamo, è attualmente consulente del governo e si è detta felice che le sue opinioni vengano di nuovo reputate importanti.

Matteo Salvini prova a fare finta di niente. Non può certo dire ai suoi elettori che il governo da lui appoggiato sta di fatto smontando Quota 100. Il governo su questo cerca di aiutarlo, e nessuno si sente di affermare quello che è ovvio, cioè che sta rientrando in campo la riforma Fornero. Troppo impopolare, per tutti. Il leader leghista in particolar modo prova a giocare con le parole, quota 102 non suona poi troppo dissimile da quota 100 e pare una via d’uscita dignitosa, poi l’anno prossimo ci si penserà.

Tornando alla riforma in sé, è vero che la questione delle pensioni non può essere affrontata se non la si guarda anche da una prospettiva macroeconomica. Le risorse a cui un anziano avrà diritto e l’età alla quale le otterrà influiscono su economia e bilancio, nonché indirettamente sui livelli di reddito e il tutto si lega alla demografia. La popolazione italiana è in costante invecchiamento e negli ultimi anni i redditi sono calati. Come fa notare in una interessante analisi [1] l’economista e docente Felice Roberto Pizzuti, dal 1996 (anno della riforma Prodi in cui si passa al sistema contributivo) gli squilibri tra spese previdenziali e entrate previdenziali, al netto delle ritenute fiscali, sono stati sanati e già da 20 anni il saldo è attivo. Il rapporto tra spesa pensionistica e Pil avrà una curva discendente. Come pure la relazione tra salari e pensioni. Tradotto: non è affatto vero che l’ennesima stretta sulle pensioni è necessaria per i bilanci dell’Inps né per evitare che i giovani di oggi si trovino a ripagare i debiti provocati dalle pensioni dei sessantenni di oggi, i quali la loro pensione se la sono in verità ampiamente pagata attraverso i contributi versati. La nuova riforma delle pensioni nasconde semplicemente l’ennesima scelta in favore della austerità, figlia di una ideologia liberista che continua a raschiare il fondo del barile anziché fare leva su un rilancio della spesa e della crescita.

[di Giampiero Cinelli]