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I punti oscuri della nuova (costosissima) pillola anti-covid in approvazione

L’annuncio è arrivato nei giorni scorsi: la multinazionale Merck è pronta a richiedere alla FDA statunitense l’approvazione per l’uso di emergenza della prima pillola anti-covid. Prontamente l’azienda ha diffuso il comunicato stampa [1] che trasmette i promettenti risultati: dimezzamento di ricoveri e decessi assumendo 4 pillole al giorno per 5 giorni, con trattamento da effettuare nei primi giorni dall’infezione. Prontissime le manifestazioni di entusiasmo dei virologi più in vista. Anthony Fauci, il factotum della gestione pandemica americana, ha parlato di «dati impressionanti», mentre dall’Italia, Matteo Bassetti, ha rilanciato definendolo un «risultato straordinario». Oltre a comunicati stampa e dichiarazioni, però, quanto si sa sulla pillola è ancora molto poco. I ricercatori che volessero verificare i dati hanno a disposizione solo il comunicato stampa aziendale [1] e la sperimentazione è stata sospesa prima di essere completata, basandosi sulla metà dei volontari inizialmente previsti. Di certo per ora c’è solo l’altissimo costo della pillola (700 dollari a trattamento) e l’immediato e brusco rialzo del valore delle azioni della multinazionale americana in borsa.

Le zone d’ombra che ancora avvolgono il molnupiravir (questo il nome della pillola anti-Covid) sono diverse. Il comunicato sull’efficacia si basa sui risultati preliminari di uno studio di fase 3, ultima tappa prima dell’eventuale approvazione. Gli studi di fase 3 prevedono di dividere i soggetti partecipanti in due gruppi: uno da trattare con il farmaco, l’altro con il placebo o altri farmaci già in uso. Nel caso specifico si è scelto di confrontare il molnupiravir con il placebo. Dallo studio è appunto emerso che il farmaco sia efficace al 50% in quanto il 7,3% dei pazienti trattati con esso è stato ricoverato, mentre il 14,1% dei pazienti che hanno ricevuto il placebo è stato ricoverato o è morto. Tuttavia, già la scelta di comparare il molnupiravir al placebo (una sostanza farmacologicamente inerte) nonostante vi fosse la possibilità di confrontarlo, ad esempio, con i farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans), che la stessa Aifa (Agenzia italiana del farmaco) consiglia [2] per il trattamento del Covid, potrebbe averne amplificato l’efficacia. È quanto sostiene ad esempio il ricercatore italiano Andrea Capocci in un articolo [3] pubblicato sul quotidiano Il Manifesto.

Un altro punto critico è rappresentato dal fatto che, in seguito a tali risultati, lo studio è stato interrotto anticipatamente, e i risultati diffusi si basano sulla valutazione dei dati provenienti da 775 pazienti, poco più della metà dei 1500 pazienti inizialmente previsti per la sperimentazione. Questo può averne inficiato i risultati? Nessuno può escluderlo. Di certo il motivo per il quale le ricerche scientifiche prevedono sempre bacini numerosi di volontari non è casuale: più il campione è ristretto, più alto è il rischio che i dati siano inficiati dalla variabilità statistica. I motivi addotti dalla Merck per giustificare l’interruzione della sperimentazione sono i seguenti: «Il risultato positivo ha indotto i ricercatori a interrompere il test, per non somministrare ai volontari un placebo in presenza di un’alternativa efficace».

La storia recente mostra oltretutto come una ricerca terminata in anticipo possa dare risultati anche molto diversi da quelli che poi si riscontrano sul campo. A insegnarlo è la vicenda del remdesivir, antivirale sviluppato in origine contro il virus Ebola e successivamente proposto come cura anti-Covid. In quel caso i test furono interrotti in anticipo per la medesima ragione e il remdesivir fu autorizzato all’uso. Peccato che un test più ampio svolto direttamente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ne abbia poi mostrato la sostanziale inefficacia [4] e l’Oms attualmente ne sconsiglia l’impiego. Questo non ha impedito alla casa produttrice Gilead di venderne dosi per 2,8 miliardi di dollari nel 2020 e prevedere ricavi analoghi per il 2021.

Evidente dunque come l’efficacia reale della pillola anti-covid rimanga da dimostrare. Particolare che però non sembra preoccupare gli Usa, che già hanno siglato con la Merck un contratto di approvvigionamento [5] che gli garantirà forniture per 1,7 milioni di trattamenti alla cifra di 1,2 miliardi di dollari. Fanno 700 dollari a trattamento, ovviamente versati alla multinazionale con fondi pubblici. Il contratto diverrà operativo non appena l’Fda (l’organo statunitense che regola i prodotti farmaceutici) concederà al farmaco l’autorizzazione per l’uso di emergenza. Gli americani non sono soli: anche l’Australia, secondo quanto riportato dai media locali [6], ha infatti deciso di acquistare 300mila dosi. Anche in questo caso si aspetterà l’approvazione delle autorità statuali. Autorizzazioni sulle quali la multinazionale americana pare pronta a scommettere dato che ha comunicato di essere già attrezzata per «produrre 10 milioni di cicli di trattamento entro la fine del 2021».

Per ora, tra l’altro, i profitti della Merck paiono essere l’unico fatto realmente verificabile della vicenda. Solo l’annuncio della richiesta di autorizzazione ha infatti prodotto un immediato e robusto rialzo del suo valore [7], passato dai 75 dollari per azione del 30 settembre (giorno precedente l’annuncio) agli 83,10 dollari del 4 ottobre

[di Raffaele De Luca]