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Un’alimentazione sana per noi e per il pianeta

Le scelte alimentari che ognuno di noi compie influiscono non solo in maniera diretta sulla nostra salute ma, indirettamente, anche sulla qualità dell’ambiente che ci circonda. Come è facile intuire, infatti, il modo in cui decidiamo di nutrirci inevitabilmente va ad incidere sul cibo che viene prodotto e dunque, almeno in parte, sull’intero sistema alimentare nonché sull’impatto ambientale dello stesso. In tal senso va ricordato uno studio [1] recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Nature: i ricercatori che lo hanno condotto hanno elaborato una banca dati globale delle emissioni alimentari con il fine di effettuare una stima (relativa al periodo 1990-2015) dei gas serra derivanti da tale settore. Ebbene, nel più recente anno oggetto dell’analisi, ossia il 2015, è emerso che dal sistema alimentare è derivato il 34% del totale delle emissioni di gas serra a livello globale.

Contrastare la transizione alimentare in atto

Quello dell’inquinamento prodotto dal sistema alimentare, quindi, costituisce già adesso un problema di notevole importanza, che tuttavia con ogni probabilità si aggraverà ulteriormente in futuro: basterà ricordare che, secondo un rapporto [2] dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu), nel 2030 la popolazione mondiale potrebbe essere composta da 8,5 miliardi di persone, nel 2050 da 9,7 miliardi, ed entro la fine del secolo da quasi 11 miliardi. Sarebbero 4,3 miliardi in più di bocche da sfamare rispetto a oggi. Chiaro quindi che anche l’impronta ambientale della produzione di cibo sarebbe destinata ad accrescere proporzionalmente. Uno scenario assolutamente da evitare: per questo sono necessarie rapide contromisure, nelle tecniche di produzione ma anche, forse soprattutto, nella scelta dei cibi da porre sulla tavola. Ma per ora si marcia in direzione opposta. Secondo una ricerca [3] condotta da ricercatori dell’Università del Minnesota, anche in questo caso pubblicata su Nature, è in atto una «transizione alimentare globale in cui le diete tradizionali sono sostituite da diete più ricche di zuccheri raffinati, grassi raffinati, oli e carni. Una tendenza dietetica che, se non controllata, entro il 2050 comporterebbe un aumento stimato dell’80% delle emissioni agricole globali di gas serra derivanti dalla produzione alimentare e dal disboscamento globale». Ed a pagarne il prezzo non è solo il clima, dato che queste diete stanno producendo anche un aumento notevole della «incidenza del diabete di tipo II, della malattia coronarica e di altre malattie croniche».

La dieta mediterranea è sostenibile

Ma cosa possiamo fare, dunque, per migliorare questa situazione? Una risposta potrebbe risiedere nelle cosiddette “diete sostenibili”: è così che l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), all’interno del report “Sustainable Diets and Biodiversity” [4], definisce le diete a basso impatto ambientale che contribuiscono alla sicurezza alimentare e nutrizionale. Esse sono rispettose della biodiversità e degli ecosistemi, nonché accessibili ed economicamente eque e convenienti. Detto ciò, in Italia non ci sarebbero grossi problemi a seguire un regime alimentare che soddisfi tali requisiti, in quanto tra gli esempi di diete sostenibili la Fao cita proprio quella mediterranea. Ed a tal proposito non si può non ricordare la “Met Diet 4.0” [5], un quadro multidimensionale che identifica 4 possibili vantaggi di tale dieta, ossia: i benefici per la salute, il basso impatto ambientale, l’alto valore socioculturale e i ritorni positivi sull’economia locale. Si tratta infatti di un modo di alimentarsi che incentiva il consumo stagionale di prodotti freschi e locali nonché la biodiversità e la varietà dei cibi, stimola le attività culinarie tradizionali oltre che la convivialità e la frugalità. Nello specifico poi, alla base della piramide alimentare mediterranea [6] vi sono verdure, frutta e cereali, da consumare ogni giorno, mentre alimenti quali pesce, pollame, legumi, uova e formaggi devono essere consumati settimanalmente. La carne rossa non è bandita, ma ricollocata nel territorio di moderazione che da sempre, a queste latitudini, ne ha contraddistinto il consumo: due porzioni o meno a settimana, massimo 50 grammi a settimana se processata.

Le “blue zones”

Un’ulteriore conferma del fatto che la dieta mediterranea sia ottima a livello salutare la si può ricavare anche dalle cosiddette “blue zones” [7]: si tratta di alcune aree, geograficamente distanti tra loro, accomunate da una speranza di vita delle persone che vi risiedono notevolmente più alta rispetto alla media mondiale. Ciò è determinato non solo dal fatto che le “blue zones” hanno caratteristiche ambientali e culturali simili, ma anche dallo stile di vita che gli abitanti conducono, alla base del quale vi è un regime alimentare non molto differente da quello previsto dalla dieta mediterranea. Le persone che vivono in queste zone infatti si rifanno ad un’alimentazione frugale, semplice e genuina, povera di zuccheri e di cibi industriali, caratterizzata da un ampio consumo di cibi di origine vegetale e, viceversa, da un consumo moderato di carne bianca, pesce, latte e formaggi.

Sprecare meno cibo è fondamentale

Detto ciò, anche lo spreco di cibo rappresenta un’altra abitudine molto diffusa che, a livello individuale, è fondamentale modificare. In tal caso, per cibo sprecato dobbiamo intendere da un lato quello mangiato inutilmente e dall’altro quello acquistato e non consumato (e di conseguenza buttato). Nel primo caso, infatti, si andrà a favorire una condizione di obesità, la quale non solo arrecherà un danno alla propria salute ma indirettamente anche all’ambiente, a causa delle emissioni di anidride carbonica prodotte durante la filiera. Prova ne è una ricerca [8] avente ad oggetto lo sviluppo di un nuovo indice, il cosiddetto “Spreco Alimentare Metabolico”, che valuta i chili di cibo ”sprecato” o comunque in eccesso che un individuo con problemi di sovrappeso o obesità consuma ed il relativo impatto ambientale in termini di emissioni di anidride carbonica, consumo di acqua e di terreno. Lo Spreco Alimentare Metabolico per la popolazione italiana in sovrappeso e obesa «è risultato essere di oltre 2 miliardi di chili di cibo, un consumo di acqua pari al 13% del volume del Lago di Garda, una quantità di emissioni di CO2 pari all’11,8% delle emissioni prodotte dalla produzione agricola in Italia e un consumo di terreno pari al 73% della superficie di Asia ed Africa».

Venendo invece al secondo caso sopracitato, ossia quello del cibo buttato, bisogna ricordare che non consumando e dunque gettando il cibo acquistato si contribuirà ulteriormente ad inquinare l’ambiente. Si tratta di un problema non da poco, dato che a livello globale ogni anno sprechiamo circa 900 milioni di tonnellate di cibo [9]: solo nel 2019 gli scarti alimentari globali sono ammontati a 931 milioni di tonnellate, il 17% del cibo disponibile al consumo. Nello specifico, l’11% viene gettato dalle famiglie: ciò rende l’idea di quanto le scelte di ognuno di noi incidano anche sulla salute dell’ambiente, dato che l’8-10% delle emissioni globali di gas serra derivano dalla quantità di cibo non consumato.

Chiaro che, come ribadito a più riprese anche in queste colonne, la soluzione ai problemi creati dall’alimentazione va costruita innanzitutto modificandone la filiera di produzione, modellata sulle necessità della grande industria, a discapito delle esigenze dei consumatori e dell’ambiente. Tuttavia riflettere su quanto si porta sulla tavola e cercare di fare la spesa in modo consapevole è un passo immediato e che tutti possono fare. La salute personale ne guadagnerebbe immediatamente, e anche per l’ambiente – goccia su goccia – non sarebbe poco.

[di Raffaele De Luca]