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Non basta una legge: come l’Italia potrebbe fermare le delocalizzazioni

Di questi tempi non capita spesso che una vertenza operaia ottenga una vittoria come quella raggiunta dagli oltre 400 lavoratori della Gkn, che dopo essere stati licenziati via sms perché la multinazionale aveva deciso di chiudere i battenti e trasferirsi all’estero – anche grazie alla lotta [1] messa in campo – hanno ottenuto la revoca dei licenziamenti [2] da parte del Tribunale di Firenze. Ma la loro situazione è simile a quella di altre migliaia di dipendenti [3] di aziende private, a rischio licenziamento spesso perché le ditte per le quali lavorano, pur non essendo in crisi, scelgono di delocalizzare all’estero la produzione.

Mentre il presidente del Consiglio Draghi ha ribadito più volte [4] di non ritenere produttivo intervenire per difendere i posti di lavoro, una parte della maggioranza (principalmente PD, M5S e Leu) sta spingendo per approvare un decreto che fissi paletti più stringenti alle delocalizzazioni. Una strada che però da sola non potrà funzionare.

Il decreto legge [5], a firma del ministro del Lavoro Andrea Orlando e della viceministra dello Sviluppo Economico Alessandra Todde, è costituito da cinque articoli e non è stato ancora calendarizzato per la discussione in parlamento. Si prevede, in sostanza, che l’azienda che intende delocalizzare (si parla nella relazione illustrativa del decreto di aziende con almeno cinquanta/centocinquanta dipendenti. Nella bozza di decreto invece si legge “almeno 250 dipendenti” ) e cessare i rapporti di lavoro, lo comunichi agli enti preposti con preavviso di almeno sei mesi, facendosi carico dei piani di ricollocamento e di formazione delle risorse che vengono tagliate fuori, oltre che della potenziale reindustrializzazione per un acquirente. Ci sono poi le sanzioni. Ovvero multe soprattutto per i soggetti che hanno ricevuto contributi pubblici negli ultimi 3-5 anni. Questi sarebbero tenuti a versare il 2% del fatturato dell’ultimo esercizio. Spicca poi l’ipotesi blacklist, una lista delle aziende che abbiano delocalizzato, le quali non avrebbero più diritto a contributi pubblici per cinque anni. Ricordiamo che, stando alle dichiarazioni del viceministro Todde, Gkp ha percepito dallo Stato italiano in totale 3 milioni di fondi pubblici. Ecco perché i sindacati auspicano una multa.

La discussione del decreto tuttavia non è ancora calendarizzata. Come prevedibile il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, si oppone strenuamente e dentro il governo ha trovato diverse sponde sensibili alla sua posizione. Già da più parti si vocifera che dalla versione definitiva del decreto scompariranno le multe (a meno che l’azienda non si impegni nel piano di reindustrializzazione) e la blacklist. Il decreto potrebbe addirittura essere privato dei requisiti di urgenza e rimandato per venire discusso come semplice disegno di legge, allungandone l’iter ed aumentando il rischio che non diventi mai legge nel rimpallo tra Camera e Senato. Le pressioni di chi giudicava l’idea troppo “punitiva”, tra cui il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti e il Commissario europeo per gli affari economici e monetari, Paolo Gentiloni, stanno avendo effetto.

Le insidie di un decreto che rischia di essere principalmente mera arma di propaganda politica sono evidenti. Se scomparissero multe e blacklist, quindi in assenza di un rischio punitivo, è impossibile che il decreto si riveli efficace. E in ogni caso i rischi che possa essere impugnato in sede europea sono ingenti. Nei trattati dell’Unione Europea vale il principio di libera circolazione dei capitali. Nessuno Stato può porre veti. Ciò è confermato dall’articolo 63 del TFUE [6] (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea). Citando appunto dal sito del Parlamento Europeo, leggiamo: “Il trattato di Maastricht (TUE) ha introdotto la libera circolazione dei capitali tra le libertà sancite dai trattati. Attualmente l’articolo 63 TFUE vieta tutte le restrizioni ai movimenti di capitali e ai pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha il compito di interpretare le disposizioni relative alla libera circolazione dei capitali e in tale settore esiste un’ampia giurisprudenza. In caso di ingiustificata restrizione della libera circolazione dei capitali da parte degli Stati membri trova applicazione la normale procedura di infrazione prevista dagli articoli 258-260 TFUE”.

Il problema delle delocalizzazioni è avvertito in tutti i Paesi in un contesto di globalizzazione. La Cina ha agito per contrastarlo, ma si tratta di un Paese socialista che mantiene un forte controllo sull’economia. Lo stesso hanno fatto gli Usa, specie durante la presidenza Trump, attraverso il controverso sistema dei dazi doganali. In Europa soluzioni del genere potrebbero teoricamente essere adottate verso le frontiere esterne (cioè per impedire delocalizzazioni al di fuori del territorio UE) ma sono impedite per quanto concerne le frontiere interne. Impedire che una azienda trasferisca la produzione dall’Italia a un altro Paese dell’Unione non è ammesso.

Per questo all’interno della cornice dei trattati UE la discussione su come impedire le delocalizzazioni rischia di rimanere senza reali possibilità di incidere sulla realtà. Per scongiurare questo rischio occorrerebbe che sanzioni e blacklist contro le aziende delocalizzatrici rimanessero in campo e fossero di importo realmente incisivo. Servirebbe inoltre che il Governo avesse l’intenzione e la forza politica di difendere la misura in sede europea di fronte alla probabili rimostranze. Così fosse non vi sarebbe ad ogni modo certezza sul reale funzionamento della norma (in Francia esiste una norma simile, spesso aggirata [7]), ma sarebbe quantomeno un reale tentativo. Sul fatto che un governo guidato dall’ex banchiere Mario Draghi se ne voglia incaricare i più nutrono ragionevoli dubbi.

[di Giampiero Cinelli]