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No, per salvare il pianeta non basta mangiare meno carne

Una delle tesi diffuse oggi da molti “esperti” è quella secondo la quale per salvare il pianeta possa bastare una riduzione del consumo di carne e prodotti animali sulle nostre tavole. Argomento tornato in voga in questi giorni dopo un articolo pubblicato [1] su una pagina di divulgazione giornalistica (non una testata vera e propria, visto che non è registrata) ad ampia diffusione specie tra i giovani: Will.ita. Si devono mangiare al massimo 500 grammi di carne rossa a settimana e sostituire parte del consumo con pollo e formaggi, sostiene con sicumera il post in questione, pur senza citare alcuna fonte a riguardo. Ma è vero che semplicemente riducendo i consumi di cibi animali salveremo il pianeta? E pollo e formaggi sono tanto migliori per ambiente e salute? In realtà non è affatto così. La tesi è troppo semplicistica e non offre al consumatore un punto di vista oggettivamente corretto.

Infatti il primo problema che viene ignorato da questa soluzione è quello del cambio di paradigma riguardo le produzioni animali nel mondo. Oggi vige il sistema di allevamento intensivo e industriale, in tutto il mondo: America, Europa, Asia. Ciò che devasta l’ambiente e che mette sul mercato prodotti animali con residui di antibiotici, ormoni e sostanze infiammatorie per il nostro organismo è proprio il sistema produttivo di tipo intensivo. Ciò che deve davvero cambiare è innanzitutto il modello produttivo, non tanto la riduzione del consumo. O meglio: prima va cambiato il modello, e poi di conseguenza si abbasseranno anche i consumi di cibi animali, perché passando dai sistemi di allevamento intensivi a quelli estensivi e biologici si risolve già in un colpo solo il problema dell’impatto ambientale. La produttività degli allevamenti estensivi è infatti inferiore a quella del modello intensivo, ma dal momento che la produzione attuale in ogni continente è eccessiva e i consumi anche, il cambio di modello produttivo è proprio quello che serve per apportare la correzione al paradigma generale, in senso virtuoso e positivo per tutti.

Cos’è un allevamento intensivo

Sarà utile chiarire brevemente quali sono le differenze tra gli allevamenti intensivi e quelli estensivi o biologici. Nei primi gli animali vengono allevati in numero molto elevato, sono confinati in stalla (capannoni enormi) tutto l’anno, senza accesso al pascolo, e vengono sottoposti a terapia antibiotica costante per ridurre e scongiurare le infezioni batteriche che sarebbero all’ordine del giorno nei capannoni chiusi e con la densità di capi elevata, e le scarse condizioni igieniche che ne derivano. Una di queste infezioni tipiche è quella della mastite, che si verifica nelle mucche da latte, che danno il latte che poi è destinato alla produzione massiccia dei formaggi, specialmente i famosi formaggi della Pianura Padana poi esportati e famosi in tutto il mondo, ma non solo quelli. Per scongiurare le mastiti alle mucche vengono somministrati regolarmente gli antibiotici, sia a scopo preventivo (profilassi) che a scopo curativo (metafilassi, ovvero una volta che la mastite insorge). Infine, negli allevamenti intensivi la nutrizione degli animali è forzata. Cosa significa? Che i bovini o il pollame hanno accesso continuo al cibo, giorno e notte, per l’accrescimento veloce (ingrasso) e una produttività più alta. Produttività elevatissime dunque, oltre ciò che è fisiologico. Ma se ciò è sicuramente un bene per l’industria a capo di questo processo produttivo, in quanto fa aumentare enormemente il suo profitto, lo è molto meno per la salute dell’uomo e per la sostenibilità ambientale. Tanto per capire meglio faccio questo esempio: le mucche da latte, se lasciate vivere al pascolo e nutrite solo con erba e fieno, possono produrre al massimo 15-18 litri di latte al giorno per capo. Se allevate invece nei capannoni degli stabilimenti intensivi, producono fino a 50-60 litri di latte al giorno, che diventano 90 negli Usa, dove sono perfettamente legali anche i trattamenti con ormoni negli stabilimenti animali. Una aberrazione e stravolgimento della loro natura. Tant’è vero che queste povere bestie vivono al massimo 2 anni e poi sono da “rottamare” [2].

L’allevamento estensivo riduce o elimina del tutto anche un altro problema tipico di quello intensivo: il trasporto di animali fra Stati e le emissioni di Co2. Avete presente le confezioni di carne dove leggiamo “allevato in Olanda”, “macellato in Italia”? Ecco, questo è dovuto al sistema industriale intensivo. Passando al modello estensivo dei piccoli allevamenti locali sparsi in ogni regione, questi trasporti non esisterebbero e si ridurrebbe anche l’inquinamento di Co2 che questi camion producono col trasporto animale.

Salumi e formaggi non sono la soluzione

Anche altri messaggi e slogan banali lanciati dai mass media sono del tutto fuorvianti e non costituiscono una vera soluzione dei problemi. Sostenere che si debba ridurre il consumo di carne di manzo, agnello, salumi e formaggi, e aumentare quello di pollo, molluschi e uova è semplicemente un non senso. Se smetto di mangiare bistecche di maiale ma aumento il consumo di uova e pollo, sto foraggiando lo stesso tipo di industria e di devastazione ambientale. Tutti sanno benissimo quanto sia distruttiva e impattante la produzione di uova e di pollame. Anzi, nello specifico questo è il settore che più di tutti ha contribuito ad oggi al problema dei residui di antibiotici nelle carni e dell’antibiotico-resistenza. Non vi sarà sfuggito che da alcuni anni a questa parte sulle confezioni di pollo e si uova è spuntata la dicitura (claim) “allevato senza uso di antibiotici”, nel tentativo di ridurre l’utilizzo farmacologico elevatissimo in questi allevamenti. Ma anche questa è una falsa soluzione purtroppo, in quanto è emerso da alcune inchieste [3], che molti campioni di pollame venduti nei supermercati italiani e con la dicitura in etichetta “senza uso di antibiotici” contengono ugualmente i batteri resistenti agli antibiotici (quindi gli antibiotici sono stati somministrati, in realtà) e che questi ultimi vengono sostituiti negli allevamenti con altri farmaci (coccidiostatici) che contribuiscono alla stessa maniera a creare il problema della resistenza dei batteri ai farmaci. Non sono passati cioè ad una tipologia di allevamento priva di farmaci, più sostenibile e non inquinante. Questo deve essere molto chiaro per il consumatore. Sono passati ad una forma di marketing molto efficace [4], che fuorvia il consumatore inducendolo a pensare che la produzione di carne sia ora più etica e sostenibile per l’ambiente.

Un altro messaggio che spesso arriva dai mass media è il seguente: aumentare il consumo di alimenti vegetali come legumi, soia, cereali. anche questo è un messaggio del tutto vuoto e fuorviante, che non porta ad una maggiore tutela ambientale. Il punto è sempre la filiera di origine. Se acquisto fagioli e cereali coltivati con l’agricoltura intensiva, l’impatto su Ambiente e salute dei consumatori rimane molto negativo. Allo stesso modo di quello dell’industria del cibo animale, in quanto le produzioni di cereali nel mondo sono quantitativamente superiori a quelle delle carni, per esempio.

Quindi, che fare?

Per ripristinare un modello produttivo ecologico, sostenibile e che tutela maggiormente la salute dei consumatori, bisogna risolvere alcuni problemi a monte. Serve togliere di mezzo l’industria intensiva di carne e latticini e rimettere al centro quella estensiva, biologica e di prossimità. E serve attuare politiche comunitarie serie, senza che la sostenibilità sia una parola vuota, a cominciare dal portare i finanziamenti della Ue a vantaggio delle piccole aziende locali a produzione estensiva e biologica, requisendo i fondi ai grandi gruppi produttivi, che tengono in piedi il sistema di allevamento intensivo, come avviene oggi.

È evidente che per fare tutto ciò serva una nuova classe politica più etica e illuminata di quella attuale. Per questo serve creare un movimento di massa che sostenga e che creda con fermezza in questa nuova prospettiva. Possiamo e dobbiamo far sentire la nostra voce di cittadini, nella consapevolezza che un pianeta migliore non comincia da noi stessi, ma da un impegno collettivo. Così si salverà il pianeta, non mangiando una porzione in meno di carne rossa.

[di Gianpaolo Usai]