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La pagina, la caverna, il corpo

Non sono più tempi di scrittura a mano libera. Utilizziamo stili di programmi grafici e di editing già predisposti, ci siamo quasi disabilitati a tracciare segni con penna o matita, a incidere su fogli le nostre tracce. Ho letto che i francobolli stanno per uscire di scena, il senso epistolare in effetti svanisce. Non si riempiono più pagine ma si rincorrono concitate mail, SMS, WhatsApp.

Nessuno è più riconoscibile attraverso il proprio stile scrittorio, le singole lettere vengono digitate disgiuntamente, non si forma più un legame tra di loro. Roland Barthes aveva scritto quasi sessant’anni fa “Il grado zero della scrittura” dove parlava di una dimensione aurorale dello scrivere, del bloccare la voce, i disegni della mente e del cuore, affermava che scrivere a mano è come riempire un vuoto, vincere una attesa.

In effetti la scrittura è un atto magico, è un imprimere nuvole nel cielo, onde nel mare, screziature nel deserto, rughe sui volti, decori sulle stoffe.

Scrivere è memoria, è lasciare il segno. Forse esiste una parentela tra i graffiti sulle rocce e nelle caverne preistoriche e i writers delle metropoli, tra la religione primitiva e l’attuale ansia di mostrare. Per esserci nel mondo, bisogna farsi sentire, farsi leggere, farsi vedere. Di recente un negoziante di Torino ha trovato al mattino la saracinesca del suo negozio trasformata in una stupenda prospettiva iperrealista.

In Francia (Anduze, La bambouseraie) ho incontrato la porta di ingresso a un giardino zen di bambou che richiamava il segno giapponese per “Hana”, ‘fiore’. Ancora Roland Barthes, nel suo studio ‘L’impero dei segni’, 1970, annotava che la scrittura giapponese è vuota e insieme tridimensionale. Appunto. Una scrittura che segna, quasi con un gesto, l’apertura al senso. Nella scrittura è davvero contenuto un movimento, un ponte verso qualcuno, l’impalcatura di un sentimento o di una idea.

Scrivere è sempre scriversi e scriverti, a un io e a un tu che poco conosciamo. Tutti aspetti che meriterebbero una speciale educazione. Un tempo la scuola imponeva la calligrafia, un ordine regolato, ma anche il disordine va benissimo, se riesce a evidenziare. Come nei tatuaggi, dove parzialmente io divento superficie espressiva, il mio corpo è la tavola scrittoria, la tela della mia identità. Nel mondo antico ‘stilo’, da cui ‘stile’, era il coltellino che serviva a incidere sulla tavoletta di cera le parole, a fissare un senso. E destinarlo a qualcuno, noto o ignoto, e a uno sguardo futuro.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]