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L’Europa ha approvato 10 colture OGM per il consumo umano

La Commissione Ue ha dato il via libera a sette nuove colture geneticamente modificate, nonché al rinnovo dell’autorizzazione per altre tre varietà transgeniche. Stiamo parlando essenzialmente di mais (5 colture), soia e colza (2 colture ognuna) e cotone (1 coltura). Le concessioni non riguardano la produzione ma solo l’importazione e il commercio. Le autorizzazioni avranno validità di 10 anni e qualsiasi prodotto ottenuto da questi Ogm sarà soggetto alle regole di etichettatura e tracciabilità dell’Ue. «Queste colture – rassicura la Commissione Ue in una nota [1] – sono state sottoposte a una procedura di autorizzazione completa e rigorosa inclusa una valutazione scientifica favorevole da parte dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa)».

La politica dell’Unione europea sembra quindi confermare una direzione favorevole alla diffusione di specie vegetali, destinate al consumo umano, modificate mediante tecniche di ingegneria genetica. Tuttavia, le innovazioni in campo agro-biotecnologico, pur portando alla selezione di varietà maggiormente resistenti, tengono ancora vivo il dibattito scientifico. In effetti, pur sottoposti a rigorosi protocolli di approvazione e sorveglianza, non vi è certezza sulla totale sicurezza di questi organismi, specie in termini di rischi ambientali. Anzi, è ormai appurato che le informazioni genetiche di colture modificate siano trasferibili. Quando una coltura GM viene coltivata, infatti, non è in alcun modo possibile controllare il flusso genico tra questa e le specie naturali. Il rischio è che quindi si vada in contro ad una perdita irreversibile del patrimonio genetico di specie affini a quelle coltivate, oltre ad alterazioni imprevedibili sulla biodiversità. In relazione a quest’ultimo aspetto, la Royal Society britannica aveva condotto un’analisi che sottolineava come la scelta della specie da coltivare incida sulla biodiversità più di quanto non faccia la coltivazione di una varietà transgenica. Ciononostante è ormai chiaro, oltreché altamente improbabile, che effetti indiretti e a lungo termine siano del tutto assenti. In primo luogo, le coltivazioni geneticamente modificate favoriscono il diffondersi delle monocolture e, in generale, pratiche agricole intensive. Le prime, in quanto massimo grado di semplificazione ambientale, sono connesse a svariate problematiche, su ogni fronte, lontane dalla sostenibilità. L’agricoltura industriale nella sua accezione intensiva, nel complesso, rappresenta invece una delle prima cause di perdita di biodiversità a livello globale, nonché della stessa crisi climatica.

Va poi detto che i reali benefici delle colture GM dovrebbero superare eventuali rischi solo quando si generano varietà resistenti a condizioni che, diversamente, non permetterebbero una produttività adeguata. Le attuali e più diffuse varietà transgeniche, di contro, sono concepite perlopiù per resistere a specifici erbicidi rimanendo, di fatto, vincolate ad essi. Come il caso delle varietà di soia GM della Monsanto, selezionate di modo che resistano al dibattuto glifosato, note per alimentare la deforestazione in Sudamerica. Nel caso invece di colture transgeniche resistenti ad organismi potenzialmente nocivi, seppur vero che queste richiedano un minor impiego di pesticidi chimici, è presto sorto il problema della possibile resistenza cui tali organismi potrebbero andare in contro. Senza contare che – come ha dimostrato un recente studio in via di pubblicazione su Entomology [2] – le varietà GM possono danneggiare direttamente l’entomofauna. Il mais transgenico in grado di produrre una tossina batterica – è emerso – danneggia non solo gli insetti nocivi, ma anche le specie non bersaglio che, invece, potrebbero naturalmente aiutare a contrastare gli organismi dannosi.

La questione è poi anche di carattere etico. La diffusione di colture geneticamente modificate appare infatti in netto contrasto con la salvaguardia di un’agricoltura tradizionale a carattere estensivo. L’imposizione commerciale, e il sostegno politico, di varietà transgeniche minaccia direttamente pratiche agricole locali di sussistenza nonché la diversità biologica ad esse legata. Senza, tra l’altro, portare a consistenti benefici. Emblematico il caso che vede, ancora una volta, protagonista la Monsanto. Nel 2008, la multinazionale oggi assorbita dalla tedesca Bayer riuscì a portare i propri interessi nel Burkina Faso. Nel giro di pochi anni, il 70% del cotone del Paese si poteva considerare transgenico. Tuttavia, a causa della bassa qualità della fibra e dell’elevato costo dei semi, i produttori locali stimarono [3], fra il 2011 e il 2016, perdite per oltre 70 milioni di euro. Il risultato è stato che il governo ha optato per l’abbandono del cotone GM e il ritorno a quello tradizionale. In definitiva, eccetto i casi in cui i vantaggi delle biotecnologie aiutino effettivamente a garantire un certo grado di sicurezza alimentare, l’impiego di colture geneticamente modificate andrebbe il più possibile limitato. La sostenibilità in agricoltura, infatti, in nessun modo potrebbe essere garantita da coltivazioni intrinsecamente legate a pratiche intensive ed anche solo potenzialmente rischiose per la biodiversità.

[di Simone Valeri]