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Elogio dell’imprevedibile

Spero che non mi stia leggendo qualcuno in attesa del check-in, a cui è stato rinviato il volo di tre ore: un ritardo, comunque, benché imprevisto, non sarebbe, dati i tempi, del tutto imprevedibile.

Vorrei parlare invece dell’imprevedibile come orizzonte filosofico, pensando per esempio a Karl Popper quando, in una memorabile intervista (La lezione di questo secolo, Marsilio 1992), afferma che la storia ci mette di fronte sempre a rivoluzioni impensabili, come è stata quella elettronica o prima ancora quella ferroviaria. Rivoluzioni che hanno inciso sugli aspetti del calcolo e della velocità, ad esempio, allo scopo di moltiplicare o facilitare le prestazioni, i contatti e gli spostamenti. E hanno obbligato la mente degli esseri umani a adottare nuove strategie nel rapporto con gli altri, segnando nuove tappe dell’evoluzione. “Non abbiamo bisogno di un senso della storia”, aggiunge Popper: quindi, l’avvenire è aperto, la storia non si muove in una direzione riconoscibile, sempre meglio la libertà del controllo, meglio la fantasia del timore, meglio il coraggio dell’obbedienza, l’ansia dell’oppressione ecc. ecc.

Il processo storico, sosteneva Jurij Lotman (La cultura e l’esplosione, Feltrinelli 1993), può essere paragonato a un esperimento, “l’esperimento che uno scienziato realizza al fine di scoprire delle leggi a lui stesso ancora ignote”. Nessun pronostico ci potrebbe avvertire dei “processi esplosivi”, vale a dire delle brusche svolte della storia: esse non sono di solito quelle che ci aspettiamo, non hanno nulla a che fare con i “processi graduali”, con gli eventi correnti a cui siamo preparati.

Sotto l’aspetto del linguaggio l’imprevedibile e l’inesprimibile coincidono: deve ancora succedere qualcosa che non può essere enunciato dal linguaggio che ora conosciamo. L’inconoscibile allora ci spingerà a inventare nuove parole per le scoperte, per le novità che ci attendono. Il pensiero adotterà nuove rappresentazioni simboliche all’irrompere di eventi dalle conseguenze non attese.

Il linguaggio e il tempo sono artisti. Il declino della vecchia cultura orale, dei racconti, delle fiabe, delle feste popolari, delle leggende e delle tradizioni, ma anche delle chiacchiere e delle conversazioni informali, ha ridotto, secondo Lotman, la parola sociale a un meccanismo comunicativo, quasi spento sul piano dell’immaginario, ininfluente sulla lunga durata, semplicemente efficiente, adeguato agli eventi ma spoglio di aspettative, uniforme, omologato, estraneo al futuro. Una parola che diventa sempre più veicolo di prescrizioni, di saperi accertati o di insinuazioni, di conoscenze già repertoriate, di istruzioni da seguire. Internet, a fronte di una esplosione artistica, di una invenzione rivoluzionaria che cosa vale?

L’impressionismo aveva valorizzato l’interiorità del vedere, il futurismo aveva osannato la velocità, il cubismo il cortocircuito dei punti di vista, l’esistenzialismo la prigionia del destino e le ambiguità del presente, il neorealismo la lotta per la vita, l’iperrealismo la rappresentazione estatica dell’attimo, e via così; ogni movimento estetico proietta nella propria ispirazione un’ideale, spinge le forme espressive a darsi un nuovo compito principale, osserva il mondo in modo originale, anche prepotente, rintracciando aspetti ancora non chiari, forzando per quanto può il pensiero a prendere in considerazione l’inconoscibile. Fa proiezioni, sì, ma non pretende di avere ragione.

Quale dev’essere allora la lezione per il nostro secolo? Penso all’imprevedibile come suggestione estetica, creativa, al posto della paura, dell’attesa conflittuale, del calcolo, del controllo in base alle aspettative. Non uno Stato paternalista o un governo, allora, che si occupi del benessere e della felicità di ognuno. Non sappiamo in che cosa consistano. Non un governo che limiti le ansie e quindi le libertà. È in azione il principio kantiano rimesso in gioco da Stuart Mill: lo Stato è tenuto a obbligare il cittadino a qualcosa che lui non vorrebbe, in base al presupposto che sarebbe per il suo bene? Mai e poi mai. “Nessuno mi può costringere a essere felice in un certo modo, ma ciascuno può cercare la propria felicità nel modo che gli sembra opportuno”.

Che cosa c’entra questa affermazione di Kant con l’imprevedibile? Se accettiamo l’imprevedibile è perché ammettiamo l’irregolarità del divenire e delle sue conseguenze, la varietà delle scelte, delle motivazioni e delle vie che si possono prendere. Il mondo potrebbe essere sempre diverso da come è. Altrimenti saremmo una società congelata in una drammatica forma di autismo.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]