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Le luci e il metrò, lo spirito e le macchine

La terra ci fornisce, sul nostro conto, più insegnamenti di tutti i libri… Ho sempre davanti agli occhi l’immagine della mia prima notte di volo in Argentina, una notte scura in cui brillavano, come stelle, solo i radi lumi sparsi per la pianura. Ciascuno era come il segnale, in quell’oceano di tenebre, del miracolo di una coscienza”. Così comincia Terre des hommes di A. de Saint-Exupéry (1939). L’autore sta effettuando uno dei suoi voli postali notturni, il più noto è quello sulla rotta Tolosa-Malaga-Casablanca-Dakar; e poi la traversata atlantica Fernando de Noronha, Brasile sino a Montevideo e a Buenos Aires. Un poeta aviatore è il migliore protagonista di una iniziazione, poiché resta tra l’intelligibile e il corporeo, e la sua macchina, l’aereo, si trasforma in apparato cinematografico. Qui la complessità espressiva mescola i ruoli tanto che possiamo ritenere non soltanto che egli scriva mentre sta pilotando ma che noi insieme a lui stiamo osservando la scena su uno schermo: “nel tale focolare qualcuno leggeva, pensava, scambiava confidenze. Nel tal altro, forse, qualcuno cercava di sondare lo spazio, si logorava in calcoli sulla nebulosa di Andromeda. Là si amava… bisogna pur tentare di riunirsi…, di comunicare con qualcuna di queste luci”.

Ma questa non è semplicemente poesia, è capacità di vedere, di concepire il mondo come una iconosfera caleidoscopica, densa e rarefatta, molteplice e spettacolare, immaginifica e concreta.

Prendo un altro esempio da Denis de Rougemont, storico delle idee, oltre che politico e primo presidente del Consiglio d’Europa. Insieme alla moglie, passa nel 1933 un esilio volontario nella piccola Ile de Ré, vivendo mesi di grande semplicità e nel suo Diario di un intellettuale disoccupato (1937), così sintetizza il rapporto tra macchina e spirito in una mirabile rappresentazione del metrò, che in quei momenti doveva apparirgli davvero remoto: “Il metrò … è l’espressione architettonica e meccanica di uno stato febbrile. È una fantasticheria sotterranea di bagliori e volti sovrapposti nei vetri sfuggenti, è un ritmico fracasso che raggiunge talvolta l’asintoto di un silenzio morto – l’assenza di musica che si ha quando il silenzio è stato ucciso, assenza che si confonde con la presenza di un rumore universale… Immagino un metrò silenzioso, più rapido, che proceda a repentini scatti da una zona luminosa all’altra, oscuro al suo interno, affollato e volgare, con automi di lusso e musiche melense e raffinate, dei lampi su scene criminali, abissi verdastri… Un metrò che sarebbe semplicemente l’inconscio dei cittadini”.

Così si fa strada quell’idea, espressa tanto lucidamente vent’anni dopo da Edgar Morin, nel suo capolavoro, Le star: “E’ la vita squallida e anonima, fatta di miserie e di necessità, che vorrebbe uscire dalle sue ristrettezze e assumere le dimensioni di quella cinematografica. La vita immaginaria dello schermo è il prodotto di questo bisogno reale”, in quanto il cinema, osserva ancora Morin “rimette in movimento i vecchi processi immaginari di identificazione e di proiezione dai quali nascono gli dèi”.

Oramai non gli uomini ma le macchine trattano le cose umane e fanno le opere della vita, e verranno un giorno a comprendere anche le opere spirituali”. Chi scrive questo è un poeta, Giacomo Leopardi, intorno al 1820, che immagina presto si realizzerà “l’uomo artificiale a vapore, atto e ordinato, indirizzato, come un automato, agli esercizi delle virtù”. E che si produrranno macchine che proteggono l’umanità dai sentimenti malvagi, come i parafumini che riparano nelle intemperie. Ma non c’è da stupirsi, sono gli anni di Frankenstein, il “mostro” di Mary Shelley, gli anni delle macchine a vapore nelle filature, ispiratrici degli scritti di Karl Marx. Dove è dunque il vapore, qualcosa che ricorda paradossalmente lo spirito, a rappresentare l’energia e il lavoro, lo sfruttamento e la fatica.

L’uomo mentre immagina e sogna, subisce e soffre, gli succede come all’ Elettra di Sofocle che, mentre travestita da serva, medita la vendetta, afferma: “Se voglio continuare a vivere libera, devo ubbidire ai potenti”. Come noi, prima di tutti, al Dio-padrone Economia. Per il momento…

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]