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Solo darwinismo sociale: tre studentesse denunciano la svolta liberista dell’università italiana

«Il processo di trasformazione dell’università in senso neoliberale». È una tendenza esistente e pervasiva che ha contagiato gran parte dell’accademia italiana. Eppure, nonostante sia un fenomeno a dir poco evidente, è pressoché innominabile. Deregolamentazione, privatizzazioni e taglio alla spesa sociale, i capisaldi del pensiero economico neoliberista hanno ormai conquistato anche gli avamposti dell’educazione e della ricerca. Dire questo, far notare questo processo di cambiamento è quasi impossibile all’interno dell’università stessa. Ma, si sa, per sfatare i tabù a volte servono dei semplici gesti, dei gesti pubblici e coraggiosi di chi si assume il rischio di indicare l’elefante nella stanza.

Questo è quello che hanno fatto il 9 luglio, durante la cerimonia di consegna dei diplomi [1] della Scuola Normale Superiore di Pisa, Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi, rappresentanti delle allieve e degli allievi della Classe di Lettere. Le tre neodiplomate hanno colto l’occasione per imbastire una riflessione sul bilancio contraddittorio dei loro anni alla Normale. Dopo aver riconosciuto il debito nei confronti dell’istituzione d’élite di cui hanno fatto parte, e dopo aver ringraziato docenti e personale tecnico-amministrativo (troppo spesso dimenticato), hanno pronunciato parole di denuncia: la Normale di Pisa ha legittimato il processo di trasformazione dell’università in azienda, «in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto, in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi. Un’università in cui lo sfruttamento della forza lavoro si esprime attraverso la precarizzazione sistemica e crescente, in cui le diseguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli, aumentando i divari sociali e territoriali». Analisi molto dura suffragata da dati: l’Italia spende molto meno della media europea nell’istruzione terziaria (0,3% del PIL contro lo 0,7%), tagli del 20% in soli 10 anni alla spesa pubblica per l’istruzione, crollo delle iscrizioni all’università (-9,6% nell’ultimo decennio), dal 2007 al 2018 -43% di borse di dottorato, – 14% di ricercatori negli ultimi 13 anni nelle università statali. Insomma, un quadro desolante di precarizzazione ed esclusione che ovviamente si fa sentire in modo più pesante al Sud e sulle donne. Inoltre, meno fondi strutturali e più quote premiali fanno sì che si allarghi il divario tra i cosiddetti «poli di eccellenza» (come la Normale ed altre Scuole Superiori) e gli altri atenei pubblici. Ma «quale eccellenza tra queste macerie?» – si chiede Virginia Magnaghi – costruire contesti elitari a fronte dello smantellamento progressivo della ricerca non equivale infatti a costruire «cattedrali nel deserto» nelle quali la classe che se lo può permettere riproduce se stessa?

Le tre rappresentanti hanno dunque puntato il dito sugli effetti dannosi della «retorica dell’eccellenza». Spesso, infatti, quello che viene spacciato per «meritocrazia» (altro termine abusato e problematico) è semplicemente darwinismo sociale: sopravvive e si afferma chi è più in grado di adattarsi alle condizioni della competizione, ma la gara è spesso inficiata da diseguaglianze di classe e/o di genere che si trovano a monte. «La retorica del merito e del talento – dice Valeria Spacciante nel suo intervento – è un alibi per generare una competizione malsana». Tanto esasperata da generare nelle studentesse e negli studenti malessere e tanti disagi psicologici e fisici (le tre ragazze parlano della «sindrome dell’impostore [2]» derivata dal senso di inadeguatezza suscitato dal ritornello dell’eccellenza, e della performatività esasperata ed esibizionistica adottata per cercare di porvi rimedio). Il modello attuale della Scuola Superiore, e l’ideologia della competizione e iperproduttività sui cui essa poggia, è, a detta delle rappresentati, insostenibile, e «incompatibile con l’incompletezza e la fallibilità di ognuna di noi»

Un altro punto fondamentale dell’intervento, cui ha dato voce Virginia Grossi è la disparità tra uomini e donne nell’accesso alla carriera universitaria. Se, infatti, borse di dottorato e assegni di ricerca sono equamente distribuiti, le cattedre di seconda e prima fascia sono affidate a uomini nella stragrande maggioranza dei casi (solo il 25% della prima fascia è ricoperto da donne). I ritmi della ricerca odierna, quelli per i quali il precariato si vince solo dopo i 40 anni di eta, e avendo dedicato i precedenti 20 a nient’altro che alle pubblicazioni, sono incompatibili con la volontà di avere una famiglia, e con il fatto che il lavoro di cura nel nostro paese ricade quasi interamente sulle donne».

Quali sono state le reazioni? A L’Indipendente le allieve della Normale hanno detto che il loro intervento ha spaccato in due la Scuola: «alcuni professori si sono dimostrati favorevoli e hanno chiesto ai nostri colleghi un confronto per capire quali azioni concrete si possano intraprendere per migliorare le cose; altri si sono espressi contro il discorso dal punto di vista dei contenuti, mentre alcuni hanno approvato il discorso, ma non la scelta di diffonderlo sulla stampa. Tutti, ad ogni modo, hanno riconosciuto l’importanza di discutere i temi da noi sollevati in un momento collettivo, come ad esempio la conferenza di ateneo o un’assemblea. Non abbiamo notato però prese di posizione pubbliche, a parte la replica del direttore [3] sul Tirreno». Per quanto riguarda le reazioni del corpo studentesco, nonostante alcuni dissensi circa «l’eccessività» del loro gesto, Grossi, Magnaghi e Spacciante si sono dichiarate «piacevolmente sorprese di ricevere la solidarietà e il sostegno di tanti studenti sparsi per l’Italia e il mondo, così come di persone appartenenti al mondo della scuola e dell’Università».

Per quel che riguarda l’ispirazione generale della loro denuncia, le allieve della Scuola hanno tenuto a precisare il carattere collettivo della loro riflessione. Dare risalto alle criticità della loro stessa posizione di privilegio accademico è stato un gesto di grande responsabilità: «dare voce a tutte le perplessità che ci hanno accompagnato in questi anni (e che continuano ad accompagnarci) è stata per noi una necessità, ci sembrava l’ultimo atto di attaccamento e responsabilità che potessimo fare nei confronti della Scuola».

[di Jacopo Pallagrosi]