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Miliardi di sussidi alla pesca stanno finanziando danni sociali ed ecologici

I sussidi elargiti dalle prime dieci nazioni del settore ittico supportano industrie della pesca che non sarebbero redditizie senza un sostegno finanziario. In questo modo contribuiscono alla pesca eccessiva e a quella illegale, non dichiarata e non regolamentata. È quanto ha denunciato un nuovo rapporto [1] supportato da Oceana, l’organizzazione statunitense per la conservazione degli oceani. Il documento, pubblicato dai ricercatori dell’Università della Columbia Britannica, ha esaminato con attenzione i sostegni economici rilasciati dai governi a favore del settore ittico. È emerso come, nel 2018, dieci Paesi – Cina, Giappone, Corea del Sud, Russia, Stati Uniti, Thailandia, Taiwan, Spagna, Indonesia e Norvegia – abbiano speso più di 15,3 miliardi di dollari innescando problematiche sociali, economiche ed ecologiche. Circa il 60% è stato speso per la pesca domestica, mentre il 35% per quella in acque straniere. Il restante 5%, invece, ha sostenuto le attività ittiche in alto mare, ovvero, in settori oceanici al di fuori della giurisdizione di qualsiasi nazione.

La Cina, con una spesa di circa 5,9 miliardi di dollari, è risultata essere il principale fornitore di sussidi alla pesca dannosi. Seguono Giappone con 2,1 e l’Unione europea con 2. In termini sociali, questi sostegni economici potrebbero portare a problemi di sicurezza alimentare in alcuni paesi meno sviluppati. Secondo il rapporto, infatti, le catture effettuate da pescherecci stranieri nelle acque degli Stati a basso reddito tendono a superare le sovvenzioni e le catture nazionali. In Sierra Leone, ad esempio, dove le persone dipendono dalla pesca per circa l’80% del loro fabbisogno giornaliero di proteine animali, i sussidi stranieri superano di dieci volte quelli dello Stato. Quel che ne risulta è che i pescatori esteri, impoverendo lo stock ittico del luogo, catturano il doppio del pesce rispetto a quelli locali. La mancanza di risorse per gestire e monitorare adeguatamente le attività di pesca condotte da flotte straniere – si legge nel rapporto – non fa altro che aggravare la situazione. Ciò, in definitiva, potrebbe determinare pratiche insostenibili e persino una pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata. In questo caso, inoltre, le conseguenze non sarebbero solo socioeconomiche, ma anche e soprattutto ecologiche.

Anziché favorire un’indispensabile transizione sostenibile del settore, i governi rischiano di peggiorare il già annoso problema del sovrasfruttamento degli stock ittici del Pianeta. Una pesca sostenibile, infatti, rispetta la naturale crescita delle popolazioni e non toglie più di quanto queste possano rigenerare autonomamente. «Tuttavia, tali sussidi – ha dichiarato a Mongabay il ricercatore Daniel Pauly – possono incoraggiare la pesca nelle aree in cui gli stock sono già stati esauriti e impedire qualsiasi tipo di recupero. Ad esempio – ha aggiunto – questi consentono a paesi come Cina, Giappone, Taiwan, Spagna e Francia di pescare in modo competitivo il tonno nel Pacifico, nonostante sia noto quanto la popolazione risulti in deficit numerico e presenti chiare difficoltà di recupero». Un meccanismo quindi, atto a favorire devastanti impatti ecologici nonché, come abbiamo visto, pericolosi rischi sociali. Per cambiarlo, prima di tutto – chiedono a gran voce gli autori del documento – è necessaria una trasparenza maggiore sull’entità e la destinazione di tali sussidi.

[di Simone Valeri]