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Senza notizie: tra libertà, solitudine e chiacchiere

La libertà: poniamo che la libertà si misuri su reciprocità, specularità, scambio dei punti di vista, presenza di alternative.

Territorialità. Si sente dire spesso che la libertà nostra arriva fin dove comincia la libertà dell’altro. Jorge L. Borges direbbe che questa è una forma cartografica della realtà, come se il mondo fosse sempre diviso in confini nazionali, sfere di influenza, invalicabili proprietà recintate o, se preferite la metafora etologica, in territorialità ove vigono perenni sospetto e competizione. Libertà con reciprocità convoca dunque libertà e territorio, libertà ed estensione. Teniamolo presente per il prosieguo del discorso.

Nomenclatura. Un altro aspetto, totalmente linguistico, io lo faccio dipendere dall’uso dei sinonimi e dico che, se di fronte a noi non si presentano alternative, è come se nel linguaggio non esistessero i sinonimi, come se non potessimo dire la stessa cosa, cioè esprimere lo stesso (più o meno lo stesso) significato, con parole differenti. E allora la lingua sarebbe una nomenclatura e ogni cosa avrebbe il suo nome, ogni oggetto il suo unico cartellino, ogni pensiero la sua espressione e soltanto quella, ogni azione una e una soltanto descrizione.

Il problema è comunque sempre la testimonianza: ciò significa che siamo disposti a credere anche a qualcuno che ci si presenta in modo strano, originale, perfino inquietante. Il credere è connesso al comprendere, non possiamo accostarci a una notizia, o a una persona, partendo dal presupposto che non sia vera, che non sia autentica. E quindi prima bisogna dare fiducia, almeno per ipotesi. D’altra parte la fiducia bisogna meritarsela. Quindi, piuttosto che derivare tutto dall’esperienza diretta, è meglio, è necessario affidarsi alla lettura, a sensazioni e fatti narrati, accettare che chi scrive, quando parla di sé sia sincero, altrimenti che senso avrebbe scrivere?

Si tratta dunque di preferire un patto narrativo a un patto d’altro genere. Ricordo una delle ultime interviste di Umberto Eco che tuttavia mi aveva lasciato interdetto: la verità esiste solo nei racconti, nei romanzi, e perché no nei social, purché noi li prendiamo come risultati di un racconto, non come testimonianze di eventi realmente accaduti.

Qualche parola, allora, su leggere la libertà. Affidarsi a testimonianze che esprimano la libertà come un potenziale, quasi come la lettura, l’apertura di un libro dal quale ci aspettiamo suggestioni.

Ho davanti a me quattro libri che nel corso del tempo hanno rappresentato varianti di uno stesso tema. Appartengono a periodi storici, a situazioni assai differenti ma sono accomunati col far parte di uno stesso genere: il racconto di una separazione volontaria, ovviamente con qualche analogia con i tempi che stiamo vivendo, dove tuttavia di volontario non c’è molto.

Come per paradosso vorrei rivolgermi allora a testimonianze di realtà in cui non esistono le notizie, semplicemente perché i protagonisti narratori di cui sto parlando hanno deciso di allontanarsi dal mondo, almeno per un po’.

Henry David Thoreau vive un paio d’anni, 1845-1847, in un bosco negli Usa, nei pressi del lago Walden, Massachusetts . Denis de Rougemont, svizzero, e sua moglie Simone vanno a vivere sull’isola de Ré, 1933-1935, nord della Francia. Sylvain Tesson, francese, decide di passare in perfetta solitudine sei mesi nella Siberia profonda (2010). Pete Fromm va a vivere sette mesi da solo sulle Montagne Rocciose (1992)…

“I nostri vicini ci confermano l’esistenza del mondo”, afferma Tesson (Nelle foreste siberiane, trad.it [1]. Sellerio 2012). E Thoreau, al suo ritorno dal periodo di “purificazione”, afferma che le opinioni dei suoi concittadini gli interessano come le notizie del “Daily Times”, cioè nulla. Pete Fromm, appena arriva in piena natura selvaggia, si ferma “al palo del telefono che secondo la guardia mi avrebbe collegato con l’esterno. Ieri avevamo scoperto che non funzionava. Tirai su comunque il ricevitore, ascoltando il suo silenzio vuoto, la voce del resto del mondo”.

Capisco che non c’entra nulla ma vorrei chiudere con Tesson. “A volte il mio sguardo indugia su uno specchio d’acqua libero e all’improvviso vi si posano due anatre: sembra l’avverarsi di una premonizione, come quando gli occhi scoprono in un libro la frase che la mente aspettava da tempo senza riuscire a formularla”. Lo stupore dunque, sempre, di fronte all’evidenza ma anche di fronte a ciò che è manifestamente falso. Rimane in ogni caso sempre in gioco quella “fascinosa vertigine”, come la chiama de Rougemont. che oppone la dimensione pubblica, sociale a quella interiore, spirituale. Ma tutt’e due vanno conservate in equilibrio, evitando di accettare qualsiasi cosa oppure sprofondare in sé stessi.

Se volete seguirmi nel ragionamento, qualche anno fa ho pubblicato un piccolo pamphlet, dal titolo Il barbecue della verità [2]. Ho utilizzato lì la metafora della diligenza Venezia-Roma che in pieno Ottocento collegava Venezia a Roma. Si chiamava La ciàcola, cioè la chiacchiera. Anche lì sopra, come oggi sui social, inevitabilmente si moltiplicavano le fake news. Che rendevano gradevole il viaggio.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]