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A Pisa, un “super computer” combatte il Parkinson

Un altro importantissimo progresso è stato compiuto nella medicina grazie all’intelligenza artificiale (AI). L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di Pisa ha infatti inaugurato un computer in grado di formulare diagnosi precoci di malattie celebrali come il Parkinson. Il Parkinson è una malattia neurodegenerativa che colpisce molte persone nel mondo. Purtroppo però, molto spesso la diagnosi arriva tardivamente, quando sono già comparsi i tipici sintomi, quali il tremore, la rigidità muscolare, i problemi nell’equilibrio e nei movimenti. Questi segnalano che il cervello del paziente ha già subito lesioni irreversibili. Per questo motivo, si ritene che scoprire il Parkinson in fase pre-clinica, possa consentire di prevenire o comunque rallentare la sua progressione, tramite la somministrazione di farmaci specifici per il contrasto della neurodegenerazione.

Lo studio “The role of deep convolutional neural network as an aid to interpret brain 18F-DOPA PET/CT in the diagnosis of Parkinson’s Disease” [1] recentemente pubblicato sulla rivista scientifica European Radiology, spiega come sia stato sviluppato un software di intelligenza artificiale in grado di riconoscere un paziente con Parkinson anche in fase iniziale di malattia, riscontrando piccoli deficit di metabolismo a livello delle strutture cerebrali interessate. Come spiegato dagli esperti, in questo caso l’applicazione dell’intelligenza artificiale consiste nella creazione di algoritmi di apprendimento automatico, i quali vengono addestrati ad imparare e a decifrare i dati forniti tramite, ad esempio, le immagini diagnostiche mediche. È giusto però specificare che l’AI non può sostituire l’uomo. Queste tecnologie forniscono infatti agli operatori sanitari solo un supporto nella lettura dei dati e nel cogliere elementi significativi che, altrimenti, non sarebbero di facile rilevazione quando le alterazioni patologiche sono di lieve entità e quindi ad uno stadio precoce della malattia.

Ultimamente, l’intelligenza artificiale è sempre più applicata nella medicina. Un importante accordo [2] è stato firmato tra l’Istituto Auxologico di Milano e il Centro Alma Human Al dell’Università di Bologna, riguardante la necessità di applicare l’AI alla diagnosi e alla cura delle patologie cardiovascolari. Così come per il diabete, malattia che condiziona quotidianamente la vita delle persone e che per questo necessita un monitoraggio costante e continue attenzioni terapeutiche. La sua difficile gestione e, in particolare, della terapia insulinica, fa sì che oltre 7 persone su 10 con diabete di tipo 1 non raggiungano un buon controllo glicemico. Per questo è stato sviluppato il DBLG System [3], un sistema ibrido ad ansa chiusa per la somministrazione automatica di insulina, che permette di agevolare la gestione del diabete. Questo tipo di sistemi – hanno dichiarato gli esperti – segnano un importante passo avanti nell’evoluzione verso i pancreas artificiali, poiché permettono l’erogazione automatica di insulina giorno e notte in risposta ai valori glicemici riscontrati dal sensore, con la richiesta dell’intervento del paziente solo al momento del pasto, quando è necessario inserire la quantità di carboidrati assunti.

La telemedicina ha dato inizio ad una nuova era. Si teme però che con la sempre più imponente applicazione dell’intelligenza artificiale in questo campo, ci sia il rischio di discriminazione di genere o razza. Il commento [4] di Peter Embi dell’Indiana University pubblicato su Jama Network Open, parte da uno studio che ha analizzato un algoritmo usato per determinare il rischio di depressione post partum. Dall’analisi è emerso che l’algoritmo, se non viene corretto, porta discriminazioni nei confronti delle donne di colore, in quanto agisce in base a dati raccolti su una popolazione in maggioranza di razza bianca. Il corpo bianco e maschile è sempre stato usato per la ricerca delle terapie, pertanto è importante che i dispositivi AI non seguano lo stesso schema. Sicuramente gli algoritmi sono molto utili nelle diagnosi, nella scelta delle terapie e nella ricerca, fungendo da “occhi aggiuntivi” per i medici. Possono però emergere pregiudizi durante il loro utilizzo, soprattutto se i dati usati per formare i modelli che li completano, non sono rappresentativi e non tengono conto di fattori come la razza o il genere.

 

[di Eugenia Greco]