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Covid, nuovo studio mette in dubbio mascherine e distanziamento in ambienti chiusi

Un nuovo studio [1] condotto da due professori del Massachusetts Institute of Technology ha dimostrato che la possibilità di contrarre il Covid-19 in ambienti chiusi in cui l’aria è «ben miscelata» non dipenda dalla distanza tra le persone. Si tratta di Martin Z. Bazant, professore di ingegneria chimica e matematica applicata, e John WM Bush, insegnante di matematica applicata, i quali hanno sviluppato un metodo per calcolare il rischio di esposizione all’interno, dal quale emerge che una distanza di 1,8 metri così come una di 18 metri non incida sulla possibilità di contrarre il virus, e tutto ciò a prescindere dall’utilizzo della mascherina. Anzi, gli studiosi sono arrivati alla conclusione che, specialmente quando le persone indossano il dispositivo di protezione, la distanza di 1,8 metri non produca vantaggi in quanto l’aria che l’individuo respira mentre indossa la mascherina tende a «salire e scendere in altre parti della stanza», esponendo le persone distanziate al contagio. Ciò non significa, però, che le mascherine siano sempre inutili: secondo gli studiosi esse servono in generale a prevenire la trasmissione poiché bloccano le goccioline più grandi, motivo per cui tali goccioline non costituiscono la causa della maggior parte delle infezioni da Covid quando le persone indossano i dispositivi di protezione.

In pratica, gli studiosi hanno semplicemente sottolineato come, quando si è al chiuso, oltre alla distanza e all’utilizzo della mascherina debbano essere considerati altri fattori, tra cui il tempo di permanenza, i sistemi di filtraggio e la circolazione dell’aria. Infatti, proprio in base alla valutazione di tali fattori i professori sono arrivati alla conclusione secondo cui il tempo trascorso nei luoghi chiusi giochi un ruolo fondamentale: più a lungo qualcuno resta in un luogo chiuso con una persona infetta, maggiore è la possibilità di trasmissione. Quest’ultima, poi, secondo quanto emerso dallo studio può essere scongiurata non tanto tramite la distanza di sicurezza, bensì tramite la ventilazione dei locali: aprire finestre o installare dei ventilatori per mantenere l’aria in movimento ridurrebbe infatti il rischio di contrarre il virus.

Dunque, sulla base di quanto rilevato dallo studio, i professori hanno criticato le politiche sul distanziamento sociale attuate dall’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) e dal Cdc (Centers for Disease Control and Prevention). «La distanza non aiuta più di tanto e dà anche un falso senso di sicurezza, perché se si è al chiuso e l’aria viene mantenuta in movimento si è al sicuro ad 1,8 metri così come lo si è a 18 metri. Quindi questa enfasi sulla distanza è stata davvero fuori luogo sin dall’inizio. Il Cdc o l’Oms non hanno mai realmente fornito una giustificazione, hanno solo detto che questo è ciò che devi fare e l’unica giustificazione di cui sono a conoscenza si basa su studi di tosse e starnuti, in cui si osservano le particelle più grandi che potrebbero sedimentare sul pavimento, ma anche in questo caso è tutto molto approssimativo, ci può certamente essere un raggio più lungo o più corto», ha dichiarato [2] Bazant.

Altra diretta conseguenza della ricerca dei professori è che non vi sia la reale necessità di chiudere alcuni luoghi, cosa che tuttavia è stata fatta in questi mesi. Ad esempio, riferendosi alle aule universitarie, Bazant ha affermato che in alcune di esse lo spazio sia sufficientemente grande, la ventilazione abbastanza buona e la quantità di tempo che le persone trascorrono insieme sia tale da far sì che esse «possono essere gestite in sicurezza anche a capienza piena». Infine, «anche il supporto scientifico che giustifica la riduzione della capienza in spazi del genere non è molto valido», ha aggiunto il professore.

[di Raffaele De Luca]