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Come e perché gli algoritmi dei social ti chiudono in una bolla

Settimana scorsa il Congresso statunitense si è riunito per discutere di un argomento che tiene in ballo la politica USA ormai da cinque anni: come i social media plasmano il nostro dibattito e le nostre menti. Nel 2016, reduci dallo scandalo Cambridge Analytica, i politici americani si erano riuniti affannosamente attorno a un tavolo per mostrarsi impegnati, per convincere i cittadini che il Governo volesse evitare a ogni costo che le “bugie strategiche” fossero nuovamente fomentate da un uso oculato – e illegale – degli algoritmi internettiani.

Nulla è successo. Il Congresso ha fatto capire con una certa trasparenza di non voler intervenire per castrare «uno dei settori commerciali più innovativi e in rapida crescita dell’Occidente». D’altro canto è proprio questo il punto essenziale: i social network scommettono sul promuovere tossicità proprio perché questo gli concede ricavi finanziari notevoli che superano di molto le eventuali sanzioni con cui vengono raramente colpiti.

Per capire come mai la situazione sia tanto incancrenita bisogna prima di tutto essere consapevoli di due presupposti: gli esseri umani si fidano naturalmente delle intelligenze artificiali [1] e la disinformazione, specie quella di estrema destra, si accattiva il massimo dell’attenzione [2] da parte del pubblico. Operando con il dichiarato intento di aumentare il fatturato delle rispettive aziende, i social media non hanno potuto che cavalcare dinamiche tanto grottescamente promettenti. Anzi, le hanno espressamente enfatizzate, radunando i vari gruppi in “camere eco [3]” attraverso cui idee e ideologie si sono polarizzate fino a garantire la normalizzazione delle fantasie più audaci.

Facebook, per esempio, vuole accuratamente evitare che personaggi di diverse sponde politiche possano confrontarsi, non solo perché un bacino di utenti ben definito è più facile da piazzare agli inserzionisti, ma anche perché un dibattito aperto renderebbe più frequenti e immediate le denunce delle violazioni dei contratti di servizio. Per assicurarsi che ciò non accada, il social ha deciso quindi di “ridurre i contenuti politici [4]” visibili nelle bacheche degli utenti, incanalando così i discorsi tossici in comunità sempre più insondabili, lontane dagli occhi del pubblico e dei critici.

Avendo un bacino di consumatori più ristretto e selezionato, Twitter se la cava leggermente meglio. Leggermente, però, poiché neppure lui riesce a chiamarsi fuori all’economia dell’attenzione che deriva dal fomentare polemiche e controversie. Proprio del portale è il concetto del “cattivo del giorno”, un termine con cui si identificano quegli utenti che finiscono elencati nella lista dei “trend” promossi dal sito, spesso a causa di alcune esternazioni che, motivatamente o non, si guadagnano una posizione privilegiata nei meccanismi della gogna pubblica.

Tutto questo, tuttavia, porta soldi e ogni eventuale incidente viene considerato un danno collaterale più che tollerabile. L’unico modo per imporre alle aziende digitali un drammatico cambio di rotta sarebbe quello di alterare le modalità di monetizzazione dei social media, di assicurarsi che la raccolta dei dati non possa essere più adoperata ai fini commerciali e che le Big Tech debbano direzionarsi verso modelli aziendali alternativi, magari affidandosi su degli abbonamenti. L’idea di dover pagare mensilmente Facebook e omologhi potrebbe sembrare folle, tuttavia la fantasia che simili servizi siano gratuiti è, per l’appunto, una fantasia: le Big Tech guadagnano su altri frangenti e la merce immessa sul mercato è la vita privata degli internauti. Il videostreaming, gli antivirus, i programmi di grafica fanno affidamento da anni su servizi da pagare a intervalli regolari e non hanno problemi a sopravvivere e, addirittura, a prosperare. Se poi i social network dovessero estinguersi perché nessuno sarà disposto a versare un fio alle Big Tech, vorrà dire che le Big Tech non hanno nulla di meritevole da offrire.

[di Walter Ferri]