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La mia avventura sulla Ocean Viking, per capire cosa succede in mare

Augusta, porto commerciale. La Ocean Viking è ancorata in rada e il suo equipaggio è in quarantena. Io con loro, imbarcato ad aprile per raccontare la vita a bordo e il soccorso in mare, primo youtuber dopo anni di giornalisti, scrittori e documentaristi. In questo mese è successo di tutto, ma partiamo dal fondo, dalla notizia più recente, comunicata dalla Mezzaluna Rossa: 50 morti in mare al largo di Zawiya, dopo un fine settimana in cui ci sono state migliaia di partenze dalla Libia e dalla Tunisia.

Cosa succede nel Mediterraneo? Me lo chiedevo da qualche anno, da quando la migrazione è diventata oggetto di commenti quotidiani sui social, di notizie contraddittorie e di scontri politici. Ora l’ho visto. Nel Mediterraneo si vive e si muore, si scappa e si viene presi, ci si affida alla sorte e a un mare che cambia in fretta. Troppo in fretta.

Sulla Ocean Viking ho vissuto giorno per giorno con l’equipaggio, dividendo gli spazi ristretti e partecipato agli addestramenti. Ora so fare una rianimazione, usare vari tipi di barella, approcciare una persona traumatizzata, cercare un gommone sul radar, allestire una clinica d’emergenza, ma soprattutto aspettare.

Il mare ha i suoi tempi, è lui che comanda. Ci sono state settimane di brutto tempo, quando era difficile anche solo camminare sul ponte spazzato dalle onde. Con quel tempo non potevamo aspettarci nessuna partenza, troppo pericoloso mettersi in mare. Attorno al 20 di aprile però ci sono stati alcuni giorni di tregua, di vento da sud e di onde sotto controllo. È bastata quella finestra di bel tempo per dar modo a barchini e gommoni di partire dalla Libia, nella notte, complice una luna piena spettacolare. Abbiamo seguito e cercato di intercettare una barca di legno per quasi un giorno intero, ma poi è scomparsa. Nel frattempo sono arrivati altri allarmi. Quello più preoccupante raccontava di un gommone con 130 persone, a dieci ore di distanza da noi.

Per raggiungerlo ci siamo tuffati in una bufera con onde di sei metri. L’ho già detto, il meteo cambia molto in fretta e travolge tutto. Abbiamo passato una notte d’inferno e i ragazzi del team di soccorso erano già preparati al peggio. Impossibile sopravvivere a quel mare su un gommone. Il giorno purtroppo ha dato ragione ai pessimisti. Quando il vento si è placato abbiamo trovato i resti del naufragio. Attorno a noi i corpi senza vita di decine di persone. Sembravano ragazzi, giovani, persone della mia età. Già gonfi e deformati, tenuti a galla dalle camere d’aria delle giacche di salvataggio.

Al dolore per la loro morte si aggiunge l’aggravante delle circostanze. Il sistema Alarm Phone aveva segnalato la loro posizione 26 ore prima e nessuno era intervenuto, tranne la Ocean Viking – cioè noi – e tre mercantili. Mi spiegano i soccorritori che troppo spesso le barche in difficoltà vengono lasciate al loro destino, che gli Stati costieri non intervengono. Qui vedo gli effetti della politica, vedo persone galleggiare senza vita perché nessuna guardia costiera è voluta intervenire. L’umore a bordo è teso, l’aria si taglia con il coltello. Le foto dei cadaveri fanno il giro del mondo e come al solito qualcuno sui social si sente in diritto di commentare che sono fatte ad arte, una messa in scena.

Qualche giorno dopo assisto a un intervento della guardia costiera libica. Il tempo è tornato buono, riceviamo segnalazioni di partenze. Facciamo rotta su due gommoni, è mattino presto e c’è nebbia fitta. Le squadre di soccorso stanno per mettere le lance di salvataggio in mare quando arriva un messaggio via radio. L’inglese è approssimativo ma il contenuto è chiaro: dobbiamo allontanarci. La nostra nave viene affiancata e superata da una motovedetta libica, è molto più veloce di noi, e cala sul primo gommone come un falco. In pochi minuti prende a bordo tutte le persone e riparte verso il secondo. La Ocean Viking ha i motori al massimo, ma i libici fanno il triplo della velocità. Mi sorprende la rapidità dell’intervento, dura un niente. Noi assistiamo a distanza di sicurezza, vogliamo evitare che le persone intercettate si buttino in mare per fuggire e che ci siano altre vittime. Guardiamo impotenti con il teleobiettivo. A distanza di pochi giorni, in quello stesso angolo di Mediterraneo, i volontari di un’altra Ong saranno testimoni della violenza dei militari libici, che usano la forza per costringere un gommone a fermarsi. Girano un video che finisce sui telegiornali, e non è la prima volta che i media raccontano di soccorsi fatti con la forza. Basterebbe essere onesti, e chiamarli con il proprio nome: respingimenti, non soccorsi.

In mezzo a questi due episodi, ho l’opportunità di partecipare a un salvataggio. È mattina presto, sono emozionato, a breve mi metterò alla prova. Il mio compito è testimoniare, ma in caso di necessità devo essere pronto a lasciare la telecamera per dare una mano. E succede. Interveniamo per due gommoni, sono stipati di persone e uno mostra segni di cedimento. Non c’è tempo da perdere, ma bisogna muoversi con calma e non fare agitare le persone. Sento la tensione del team, e la mia.

La prima persona che tiriamo fuori dal gommone è Yaya, un bambino di due anni. Piange disperato, a pieni polmoni, e viene infagottato in un giubbottino di salvataggio. Sua mamma è in mezzo al gommone, in sua attesa lo tengo in braccio e cerco di calmarlo. Sono minuti che mi sembrano eterni. Lui piange, altri gridano, attorno a noi solo mare e persone da mettere in salvo. Alla fine dell’intervento abbiamo a bordo 236 naufraghi. Sono giovanissimi, quasi la metà sono minori non accompagnati. Vista l’età media e la stagione potrebbe essere una gita di terza media, ma non ci sono maestri e l’unica lezione è quella di sopravvivere. Sono tutti stanchi e disidratati. Alcuni vomitano. Un ragazzo non riusciva a stare in piedi e l’abbiamo trasportato in barella. Le donne vengono separate dagli uomini, hanno a disposizione una stanza protetta e più confortevole. A bordo tutti ricevono un kit di benvenuto con dei vestiti, del cibo e dell’acqua. Il primo giorno passa fra docce e riposo, sono tutti stanchi e dormono sul ponte.

Dal mattino successivo la mia telecamera suscita curiosità, alcuni si avvicinano e vogliono raccontare la loro storia. Per me è l’occasione di capire, di fare la domanda che mi brucia in gola da qualche tempo. Voglio capire. Il mare è pericoloso e su questo non ci sono dubbi. La gente muore o viene respinta. Perché partire, allora? Perché mettere la vita in mano a trafficanti e gommoni. Chi sono questi ragazzi, da cosa scappano e cosa vogliono?

Le risposte sono un fiume in piena. Per la prima volta da mesi o da anni queste persone si trovano davanti qualcuno che vuole ascoltare, qualcuno che si prende cura di loro, qualcuno che non li fa sentire in pericolo. Raccolgo storie di giovanissimi in fuga da famiglie violente, di ragazzi costretti ai lavori forzati, di persone messe in prigione più e più volte. Il mare è la via di fuga, impossibile tornare indietro. Alcuni sono stati messi sui gommoni contro la loro stessa volontà. I medici a bordo visitano persone che sono state picchiate perché non volevano imbarcarsi. È un mondo capovolto, in cui il rischio di morire in mare viene rincorso, desiderato, accettato. È un mondo in cui si può scegliere di morire per non restare schiavi. Faccio fatica a capire, sono concetti distanti dal mio sentire, ma sono reali, sbattuti di fronte a me. Qualcuno dei nostri involontari passeggeri parla tre lingue, qualcuno non sa nemmeno scrivere. I vestiti che abbiamo distribuito sono tutti uguali (tuta blu, calze nere, cappellino) e questo crea l’inganno dell’uniformità. Niente di meno vero, ho davanti un’umanità complessa e diversissima, nella quale mi perdo fra mille storie.

Un sera, dopo varie richieste, riceviamo dall’Italia l’autorizzazione a entrare in porto. Lo comunichiamo al mattino presto, è il primo maggio, siamo in vista di Augusta. La gioia è incontenibile. Canti, balli, qualche lacrima. Per contrasto, o forse per lezione del destino, la prima immagine di questa Europa tanto voluta ha la forma di rottami. Il nostro attracco è di fronte a una montagna di ferro vecchio. Ad attendere i naufraghi due settimane di quarantena su un’altra nave, noleggiata dal governo italiano. Poi, per ognuno di noi, ricomincerà il viaggio.

[reportage di Giuseppe Bertuccio D’Angelo]