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Gli Usa hanno stanziato oltre un miliardo per influenzare i media cinesi

Il 21 aprile scorso, la Commissione relazioni esterne del Senato statunitense ha approvato all’unanimità lo “Strategic Competition Act [1]” che ha come obiettivo principale la Cina. Sostanzialmente, la nuova legge pone la Cina come nemico numero uno degli USA e fornisce un quadro complesso e globale della portata della sfida. Nel documento si può leggere come gli USA intendano contrastare, in tutti i campi, la crescita cinese: nell’economia e nella produzione, nelle questioni diplomatiche e politiche, nel campo tecnologico e della sicurezza come anche nell’info-sfera. Insomma, gli USA definiscono l’intero globo terrestre, fisico e digitale, come il terreno di scontro con la potenza cinese.

Tra le moltissime cose che si possono trovare nel documento, al sottotitolo “D” – “Countering Chinese Communist Party Influence” – si può leggere di una mastodontica operazione di propaganda anticinese finanziata al costo di 300 milioni di dollari l’anno per il periodo 2022-2026, definita di contrasto «alle attività e all’influenza maligna del Partito Comunista Cinese». Al riguardo, al punto “E” si può leggere cosa gli Stati Uniti intendano fare in tale ambito: promuovere trasparenza, responsabilità e ridurre la corruzione; sostenere la società civile e mezzi di comunicazione indipendenti sull’impatto negativo della Nuova via della Seta; contrastare l’influenza indebita della Repubblica popolare cinese esponendone la disinformazione e la propaganda.

Alla sezione 136 del documento si specifica come si intende raggiungere gli obiettivi sopra esposti. L’Agenzia degli Stati Uniti per i media globali (USAGM) e le entità federali e non federali affiliate dovranno formare giornalisti e fornire servizi di supporto tecnologico e tecnico. Ad esempio, si delinea l’espansione della copertura nazionale e dei servizi di Radio Free Asia, aumentandone i finanziamenti per servizi linguistici in mandarino, tibetano, uiguro e cantonese. L’Open Technology Fund deve invece continuare ad espandere il lavoro per aggirare la censura e la sorveglianza del Partito Comunista cinese, dentro e fuori la Cina, fornendo strumenti tecnici e tecnologici di supporto. Il Bureau of Democracy, Human Rights, and Labor continuerà a supportare i programmi di libertà di Internet e di contrasto alla violazione dei diritti umani.

Non può mancare un riferimento anche alla Russia per cui «Voice of America istituisce uno strumento di tracciamento della disinformazione in tempo reale simile a Polygraph per la propaganda e la disinformazione in lingua russa», come scritto nel documento. Come fa notare William Jones [2], analista politico del Chongyang Institute for Financial Studies della Renmin University of China, il documento riporta anche l’esigenza di orientare l’opinione pubblica interna statunitense in funzione anti-cinese visto che questa non sembra essere così in linea con il sentimento dell’establishment USA, operando dunque anche all’interno del proprio territorio.

L’analista britannico di politica e relazioni internazionali, Tom Fowdy, sottolinea invece l’enorme ipocrisia del doppiopesismo americano [3]: «Il giornalismo finanziato da Cina e Russia è “disinformazione”, ma quando Washington spende milioni in agenzie di stampa “indipendenti” e compra giornalisti per ottenere una copertura favorevole delle sue politiche, si chiama “diffusione di informazioni”».

Sentiamo spesso parlare di disinformazione e propaganda russa o cinese, o di qualsiasi altro paese scomodo all’Occidente, ma mai sentiamo parlare delle PSYOPS [4] condotte dai paesi occidentali, Stati Uniti su tutti, portate avanti con l’impiego di think thank, media e social network, ONG e con tutto ciò che asserisce al cosiddetto “softpower”, che certamente non hanno niente da invidiare agli altri paesi e l’atteggiamento posto con tale legge ne è una fulgida dimostrazione. Come sempre, può essere interessante riflettere su una semplice domanda: come reagirebbero gli Usa se la Cina mettesse nero su bianco l’intenzione di influenzare l’opinione pubblica americana e i suoi media?

[di Michele Manfrin]