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Usa, le grandi aziende ora vogliono scegliere la legge elettorale

Le più grandi aziende americane, fra cui Facebook, Google, Amazon e Microsoft, con centinaia fra CEO e leaders del settore privato, si sono per la prima volta schierate politicamente in blocco. Con la dichiarazione “We Stand For Democracy”, si sono unite alle proteste dei democratici contro le recenti modifiche alle procedure di voto da parte della Georgia, stato a guida repubblicana. In concreto la nuova legge aggiunge il voto anticipato in molte contee, regola l’orario in cui questo può svolgersi: dalle 9 alle 17 o dalle 7 alle 19. Rende obbligatorio presentare un documento d’identità ufficiale, come la patente, nel caso di voto in assenza. Oppure ancora proibisce la possibilità di vendere acqua e cibo entro 150 piedi dal seggio elettorale, o 25 dal votante in fila. Tutti cambiamenti che per i repubblicani intendono rendere il voto più sicuro e controllato per prevenire possibili brogli. Non secondo i CEO di realtà come Delta Airlines o Microsoft, che l’hanno descritta come «inaccettabile» o «un ingiusta limitazione del diritto di voto». Secondo i colossi privati la nuova legge elettorale è discriminatoria: in particolare per la comunità nera.

Prima di questa imponente coalizione, le multinazionali avevano solo fatto capolino in politica. È con la morte di George Floyd, lo scorso maggio, che hanno iniziato a fare esternazioni significative. YouTube, ad esempio, aveva dichiarato [1] «we stand in solidarity against racism and violence». Si trattava però ancora di azioni singole, e soprattutto che toccavano sì argomenti politici, come il razzismo, ma non la politica concreta, le leggi, le decisioni. Adesso ci siamo arrivati: le corporations entrano nel dibattito politico arrivando al punto di delegittimare una legge. Un «ricatto economico», lo ha chiamato [2] Mitch McConnell, senatore repubblicano del Kentucky, accusandole di voler influenzare la possibilità di riforme repubblicane in materia di voto. Cosa che in realtà spetterebbe alla politica in senso stretto.

La presa di posizione dei grandi chief executives è arrivata dopo una lettera firmata da 70 imprenditori afroamericani aveva già posto l’attenzione sulla legge, chiedendo che amministratori delegati e capi d’azienda si schierassero contro quello che definivano un tentativo dei repubblicani di sopprimere il voto nero in Georgia: «i nostri colleghi hanno fallito nel combattere per la giustizia razziale», dicevano i firmatari [3]. Ma anche i gruppi di attivisti hanno avuto un peso nella scesa in campo: convinti che la norma fosse discriminatoria, hanno minacciato di boicottare [4] Coca-cola o Delta Airlines, che hanno sede ad Atlanta. A prescindere da una valutazione nel merito della legge, bisogna su questo punto dire risulta fuorviante descriverla come «regresso per i diritti della comunità nera [5]». Per capirlo basta l’esempio del “early sunday vote”, cioè la bufala circolata che la legge discrimini gli afroamericani eliminando il voto di domenica anticipata. È noto che in particolare gli afroamericani religiosi ricorrano a questa pratica, durante i così detti “Souls the Polls”. In molti, date anche dichiarazioni affrettate [6] come quella del senatore Chuck Shuman, hanno fallacemente concluso che allora l’intento dei repubblicani fosse discriminare gli afroamericani. In realtà è una conclusione infondata, basata su convinzioni soggettive. C’è poi da dire che la legge, nella sua forma definitiva, dà la possibilità
di votare anticipatamente due domeniche. Nonostante nulla configuri la nuova leggere come discriminatoria, attivisti, democratici e pure il Presidente Joe Biden hanno dichiarato  che sarebbe un «ritorno a Jim Crow [7]», cioè ai tempi della segregazione.

[di Andrea Giustini]