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Le multinazionali del petrolio all’assalto dei parchi naturali africani

Oltre il 70% dei siti naturali africani patrimonio dell’Unesco è oggetto di concessioni minerarie e petrolifere. È quanto sottolineava, già nel 2016, un report [1] del Wwf. Oggi, alla luce delle intenzioni della società francese Total, le cose non sembrano migliorare. La multinazionale d’oltralpe ha previsto, infatti, dieci nuove trivellazioni in diverse riserve del continente. Sei Organizzazioni non governative, ugandesi e francesi, hanno però opposto resistenza facendo ricorso al tribunale di grande istanza di Nanterre. Secondo le Ong, il progetto di costruzione di un oleodotto, dai pressi del Lago Alberto in Uganda all’Oceano Indiano, minaccerebbe l’ambiente e la salute umana. Nonostante gli abitanti dei luoghi oggetto dei test di perforazione abbiano già accusato disturbi dell’udito e problemi respiratori, il tribunale di Nanterre prima e la Corte d’appello di Versailles poi, si sono dichiarati incompetenti.

Preoccupa la situazione nel resto del continente. Nel 2018, il Consiglio dei ministri della Repubblica Democratica del Congo aveva già declassato il 21,5% del Parco Nazionale del Virunga e il 40% del Parco nazionale della Salonga a zone di interesse petrolifero. Namibia e Botswana, nel 2020, hanno invece concesso alla società canadese ReconAfrica permessi di prospezione a discapito di 35mila chilometri quadrati lungo il fiume Okavango. In Botswana, nonostante le 4.500 pitture rupestri presenti, è prevista poi una trivellazione nel sito archeologico di Tsodilo Hills. La posta in gioco è chiaramente alta: nell’area, infatti, si stimano riserve di petrolio equivalenti a 100 miliardi di barili. In Nigeria, su richiesta della Corporazione cinese del petrolio, il governo ha declassato oltre la metà della più grande area protetta d’Africa. In questo caso però – rassicura la Commissione europea – i confini del parco sono stati riadattati per mantenere inalterata la superficie iniziale.

Altra nota positiva è la riuscita, nel luglio 2020, di una mobilitazione che ha impedito la ricerca di gas in un santuario marino a largo del Mozambico. Nel complesso, tuttavia, sono i tentativi di repressione a predominare. Un mese dopo, ad agosto, sono state arrestate dieci persone contrarie all’oleodotto della Total. Così come altre nove, tra giornalisti ed attivisti, trattenute dalla polizia ugandese di modo che non potessero manifestare. Senza parlare poi delle pressioni subite dai testimoni direttisi a Nanterre in occasione del processo contro la Total del 2019. Anno in cui la stessa multinazionale avrebbe annunciato l’investimento di 100 milioni di dollari l’anno per la salvaguardia delle foreste. «Un tentativo – secondo Alain Karsenty, economista del Cirad – di addormentare la vigilanza del pubblico».

In generale, negligenza ed assenza di volontà politica dominano la scena. Le concessioni petrolifere in Africa minacciano corridoi migratori di animali selvatici, la più grande popolazione di elefanti del continente, oltreché santuari di bonobo e gorilla. La regione dei Grandi Laghi, inoltre, sarebbe particolarmente vulnerabile. Secondo uno studio [2] del 2016, le estrazioni nel lago Tanganica potrebbero avere effetti devastanti. Si tratta, infatti, di un ecosistema chiuso il cui completo ricambio delle acque richiederebbe settemila anni. L’eventuale impatto di una perdita di petrolio potrebbe quindi durare così a lungo da pregiudicare la sopravvivenza di oltre dieci milioni di abitanti. E questo è solo un esempio.

[di Simone Valeri]