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Come le tecnologie occidentali stanno aiutando la repressione in Birmania

Il 1 febbraio 2021, una giunta militare ha preso il potere in Myanmar. La popolazione ha reagito al colpo di stato con una serie di manifestazioni pacifiche che la polizia ha gestito duramente, uccidendo almeno 25 persone e detenendone 1100. Tra le armi principali della repressione vi sono le cosiddette “armi digitali”: sistemi di tracciamento, spionaggio, hackeraggio e analisi di dati. Una serie di aziende occidentali (europee, statunitensi ed israeliane) stanno rifornendo la giunta con queste armi di “repressione digitale.”

L’organizzazione Justice for Myanmar ha condotto un’indagine [1] sui budget del Ministero degli Affari Interni e quello di Trasporti e Comunicazioni degli ultimi anni, per poi inviarne i risultati al New York Times [2]. Ne è emerso che la polizia ha acquistato molti strumenti digitali per spiare e controllare la propria popolazione, soprattutto attraverso telefoni e social media. Risulta che moltissime delle aziende rifornitrici sono occidentali. In particolare parliamo di droni di sorveglianza israeliani, software di hacking statunitensi e dispositivi di cracking di iPhone europei. Figura nella lista anche un’azienda italiana: SecurCube srl, che si occupa di analisi di reti e tracciati telefonici. Gli USA restano il paese più rappresentato, con quasi 20 aziende, ma compare anche la Cina, con 4 aziende rifornitrici. Tutto questo è avvenuto nonostante il divieto del 2017 di esportare in Myanmar, paese responsabile di violenze contro la minoranza Rohingya.